giovedì 28 agosto 2014

Only a job

Richleaf, Maracay
Complesso Esperanza, Stanza

- Non ti piace avere la tua storia scritta sulla pelle?
- Ce l'ho scritta sulla pelle, anche se non si vede.. e non mi servono le cicatrici per ricordare quei giorni. Ne nessun altro giorno. Sono tracce indelebili che non scompaiono.
- E’ davvero il momento in cui avuto più paura, in tutta la tua vita?
- Penso di si. Era qualcosa che non potevo controllare in alcuna maniera, ne prevedere o scongiurare. Era tutta fortuna, o destino.. chiamalo come vuoi. Quello, comunque. Potevo solo sperare di uscirne vivo, tutto qui.
- E qual è il momento in cui sei stato più felice?
- Credevo fosse durante il mio "fidanzamento". Ma non era felicità quella. Era appagamento momentaneo, l'ho capito dopo.
- …non sai davvero dirlo?
- Forse da bambino. Non saprei. Tu invece? Quand'è stato?
- Il giorno che sono andata a vivere con i miei compagni. Avevo diciannove anni. Passammo tutta la sera a disimballare scatoloni con le mie cose e a parlare di come avremmo riarredato la casa. Sono stata felice... molte volte, nella mia vita. Ma non sono mai stata serena come quei periodi.

L’alba. L’hanno aspettata fino a che le palpebre non si sono fatte pesanti ed i corpi, sudati e stanchi, non sono crollati tra le lenzuola. Una traccia dorata ha fatto capolino oltre la finestra aperta, inondando la stanza di una calda luce che si è riflessa ovunque. Dal cortile proviene il vociare delle famiglie che vivono nei dintorni del Complesso Esperanza, un affittacamere da poco – anche se uno dei migliori della zona. Ci sono palazzi a ridosso l’uno dell’altro, balconi popolati di gruppi chiassosi e sereni che, nella loro comunità, banchettano e fanno festa. E ridono. E scherzano. Li ha ascoltati diverse volte nel corso del “soggiorno”. Li ha guardati, dalla penombra dietro alla finestra, e si è immaginato una vita così: semplice. Owen non è mai stato un tipo schizzinoso ne xenofobo. Per quanto Corer nel midollo ha viaggiato così tanto da aver imparato come mischiarsi e come vivere. A Maracay ha conosciuto il miele, i favi morbidi di cera, la semplicità dei locali di periferia dove tutti ti guardano ma pochi si fanno gli affari tuoi. O, almeno, così pare.  Ha girato tra le vie ed ha assaporato gusti e tradizioni spariti dai Pianeti del Core. Nettamente un altro ‘Verse, pare.
Ci pensa e ripensa ogni notte, ogni giorno, come ora che fissa il soffitto ad occhi aperti già da un paio di ore. Non si è mosso dal letto, non ha fatto capire di essere sveglio. All’inizio ha osservato Elian a lungo, sfiorandole la fronte con il dorso delle dita per sentire la temperatura. Le ha scostato i capelli dal viso, l’ha coperta e l’ha ascoltata respirare. Non l’ha mai sfiorata più del necessario, non ha preteso attenzioni. Persino quando scivola via dalle coperte, poggiando i piedi in terra, si assicura di non allarmarla. Un fruscio di lenzuola, un corpo che si gira e l’attimo trattenuto in un respiro: tutto è calmo, tutto è silenzioso. Il pavimento è caldo, ci si cammina scalzi piacevolmente. Si allontana dal letto raggiungendo il bagno, non prima di aver raccattato il pad dal comodino. Un’occhiata veloce all’ora – tarda – ed a messaggi e chiamate o aggiornamenti vari. Socchiude la porta, lasciando solo il riverbero della luce elettrica schiacciata con un ronzio costante e basso, fastidioso. La doccia dura poco e lo lascia umido anche dopo che si è passato un asciugamano tra i capelli legandolo in vita. Il ritorno al resto della stanza è silenzioso come l’allontanamento, solo che stavolta si lascia dietro una scia di vapore ed il profumo di un sapone dall’aroma forte, decisamente maschile. I vestiti che raccoglie sono semplici, anonimi. Non sono da lui ma li indossa comunque, come se stesse facendoci l’abitudine. Il *bip* del pad arriva poco dopo: un messaggio. Lo legge infilando le maniche di una maglia, sbirciando dal colletto senza ancora aver passato la testa. 
Quando torni andiamo a cercare casa. Deve essere piccola. Niente di troppo sfarzoso. In una zona dove c'è poco chiasso perchè la gente mi sta sulle palle e già ne vedo troppa sullo skyplex. Cioè mi accompagni a cercare casa. La casa la prendo io.  Tu ce l'hai già una casa anche se hai detto che vuoi cambiarla. Insomma..Hai capito..
..Si..Lo so che hai capito..
..Torna presto..

 Nicole 

Si ritrova a sorridere senza rendersene conto. In realtà è una risata soffocata in gola, camuffata con uno sbuffo basso che raschia le corde vocali. Non compone una risposta subito, lascia invece un foglio elettronico sul proprio cuscino – uno che Lee troverà al risveglio. 
Vado a compare da mangiare e da bere.  
Resta qui, aspettami.  
Mi raccomando.

Una precauzione in più, ora che la “scorta” è tornata su Greenfield. Lo sguardo si rabbuia per ogni passo fatto in direzione della porta. Di fronte a questa controlla le tasche: soldi, sigarette, accendino e pad. C’è tutto. Le chiavi, ecco cosa manca, trovate agganciate su una tavoletta di legno inchiodata al muro. Semplice, spartano. Utile. Solo un *click* basso segue l’uscita, poi l’eco dei passi lungo il corridoio e giù dalle scale.
Non guarda dove va, o più che altro non guarda le persone che incrocia con molta attenzione. Una cosa che gli costa davvero cara, oltretutto. Non coglie l’ombra dietro di sé, a seguirlo per una decina di minuti abbondante. Lo avverte il formicolio dovuto ad una osservazione estranea troppo audace, costante. Terribilmente fastidiosa. Non si gira, prosegue dritto fino al fondo del mercato, poi oltre all’imbocco di un vicolo. Lo scricchiolio del selciato calpestato da un’altra persona è come un grido nel silenzio. Forte, che strappa via l’aria dai polmoni. Non è ansia quella che gli stringe le viscere, solo un nervosismo più vivace che dilata le pupille e schiaccia le labbra in una linea netta e severa. Scarta di lato, su un vialetto costeggiato da negozi. Corre.. e lo fa nel posto meno indicato. Il brusio si alza subito dopo. Voci che seguono, che parlano un po’ Arabo un po’ Spagnolo: gruppo misto, pessima scelta. Si riscopre un ginnasta provetto, in grado di saltare ostacoli piuttosto alti ed a girare repentinamente senza cadere. Crede di farcela. Lo crede *davvero* con tutto sé stesso. Fino a che non viene caricato da un “bestione” che arriva di lato e che, in una semplice mossa, lo schiaccia contro ad un muro. Lo schianto è secco, porta via polvere e mattoni consumati. Sibila e digrigna i denti, aprendo gli occhi sul mastodontico profilo di Omar. Un sorriso dai denti d’oro, un alito fetido ed il grasso del corpo che traballa. Diamine se puzza. 
- Dunham
- Oh, fuck.. Omar. Che bello… rivederti.
- E’ da un po’ che ti cerco. Dove sei stato?
- Sai, qui e li. Potevi chiamare, il mio contatto lo hai.

Un’altra spinta, un’altra botta contro alla parete. 
- Ehi, perché non ti dai una calmata? Mi stai facendo male. 
Un grugnito, poi silenzio. Lo lascia così di scatto che per poco non perde l’equilibrio, rischiando di cadere in terra. Scrolla i vestiti, sbattendosi le mani sul petto e sulle braccia. 
- Allora, cosa c’è stavolta?
- Mi servi.
- Ok.. e per cosa?
- Lo saprai a tempo debito. Devi venire con me.
- Senti, ho da fare. Magari un’altra volta eh?
- Ho detto che devi – venire – con – me. Ora, Dunham.
- Non sono libero.
- Non mi interessa.
- Beh, a me si. Omar, si può sapere che cazzo vuoi?
- Due ore.
- Due ore per cosa? Non sono una prostituta che paghi a ore. Dimmi che vuoi.
- Due ore.
- Ohh, Omar ascoltami…

Il pugno arriva così veloce, e così forte, che nemmeno se ne accorge. Perde i sensi praticamente subito. Lo raccattano loro, caricandoselo in spalla.
Due ore.
Due ore di buio e di lavoro.
Due ore per cercare informazioni su un giro di droga locale, piccoli spacciatori che si fanno la guerra tra una strada e l’altra.
Due ore, prima di tornare in stanza senza cibo ne bevande.
... e con un occhio nero.