Richleaf, Maracay
Complesso Esperanza, Stanza
- Non ti piace avere la tua storia scritta sulla pelle?
- Ce l'ho scritta sulla pelle, anche se non si vede.. e non mi servono le cicatrici per ricordare quei giorni. Ne nessun altro giorno. Sono tracce indelebili che non scompaiono.
- E’ davvero il momento in cui avuto più paura, in tutta la tua vita?
- Penso di si. Era qualcosa che non potevo controllare in alcuna maniera, ne prevedere o scongiurare. Era tutta fortuna, o destino.. chiamalo come vuoi. Quello, comunque. Potevo solo sperare di uscirne vivo, tutto qui.
- E qual è il momento in cui sei stato più felice?
- Credevo fosse durante il mio "fidanzamento". Ma non era felicità quella. Era appagamento momentaneo, l'ho capito dopo.
- …non sai davvero dirlo?
- Forse da bambino. Non saprei. Tu invece? Quand'è stato?
- Il giorno che sono andata a vivere con i miei compagni. Avevo diciannove anni. Passammo tutta la sera a disimballare scatoloni con le mie cose e a parlare di come avremmo riarredato la casa. Sono stata felice... molte volte, nella mia vita. Ma non sono mai stata serena come quei periodi.
L’alba. L’hanno aspettata fino a che le
palpebre non si sono fatte pesanti ed i corpi, sudati e stanchi, non sono
crollati tra le lenzuola. Una traccia dorata ha fatto capolino oltre la
finestra aperta, inondando la stanza di una calda luce che si è riflessa
ovunque. Dal cortile proviene il vociare delle famiglie che vivono nei dintorni
del Complesso Esperanza, un affittacamere da poco – anche se uno dei migliori
della zona. Ci sono palazzi a ridosso l’uno dell’altro, balconi popolati di
gruppi chiassosi e sereni che, nella loro comunità, banchettano e fanno festa.
E ridono. E scherzano. Li ha ascoltati diverse volte nel corso del “soggiorno”.
Li ha guardati, dalla penombra dietro alla finestra, e si è immaginato una vita
così: semplice. Owen non è mai stato un tipo schizzinoso ne xenofobo. Per quanto
Corer nel midollo ha viaggiato così tanto da aver imparato come mischiarsi e
come vivere. A Maracay ha conosciuto il miele, i favi morbidi di cera, la
semplicità dei locali di periferia dove tutti ti guardano ma pochi si fanno gli
affari tuoi. O, almeno, così pare. Ha
girato tra le vie ed ha assaporato gusti e tradizioni spariti dai Pianeti del
Core. Nettamente un altro ‘Verse, pare.
Ci pensa e ripensa ogni notte, ogni giorno,
come ora che fissa il soffitto ad occhi aperti già da un paio di ore. Non si è
mosso dal letto, non ha fatto capire di essere sveglio. All’inizio ha osservato
Elian a lungo, sfiorandole la fronte con il dorso delle dita per sentire la
temperatura. Le ha scostato i capelli dal viso, l’ha coperta e l’ha ascoltata
respirare. Non l’ha mai sfiorata più del necessario, non ha preteso attenzioni.
Persino quando scivola via dalle coperte, poggiando i piedi in terra, si
assicura di non allarmarla. Un fruscio di lenzuola, un corpo che si gira e l’attimo
trattenuto in un respiro: tutto è calmo, tutto è silenzioso. Il pavimento è
caldo, ci si cammina scalzi piacevolmente. Si allontana dal letto raggiungendo
il bagno, non prima di aver raccattato il pad dal comodino. Un’occhiata veloce
all’ora – tarda – ed a messaggi e chiamate o aggiornamenti vari. Socchiude la
porta, lasciando solo il riverbero della luce elettrica schiacciata con un
ronzio costante e basso, fastidioso. La doccia dura poco e lo lascia umido
anche dopo che si è passato un asciugamano tra i capelli legandolo in vita. Il
ritorno al resto della stanza è silenzioso come l’allontanamento, solo che
stavolta si lascia dietro una scia di vapore ed il profumo di un sapone dall’aroma
forte, decisamente maschile. I vestiti che raccoglie sono semplici, anonimi. Non
sono da lui ma li indossa comunque, come se stesse facendoci l’abitudine. Il
*bip* del pad arriva poco dopo: un messaggio. Lo legge infilando le maniche di
una maglia, sbirciando dal colletto senza ancora aver passato la testa.
Quando torni andiamo a cercare casa. Deve essere piccola. Niente di troppo sfarzoso. In una zona dove c'è poco chiasso perchè la gente mi sta sulle palle e già ne vedo troppa sullo skyplex. Cioè mi accompagni a cercare casa. La casa la prendo io. Tu ce l'hai già una casa anche se hai detto che vuoi cambiarla. Insomma..Hai capito....Si..Lo so che hai capito....Torna presto..Nicole
Si ritrova a
sorridere senza rendersene conto. In realtà è una risata soffocata in gola,
camuffata con uno sbuffo basso che raschia le corde vocali. Non compone una
risposta subito, lascia invece un foglio elettronico sul proprio cuscino – uno che
Lee troverà al risveglio.
Vado a compare da mangiare e da bere.Resta qui, aspettami.Mi raccomando.
Una
precauzione in più, ora che la “scorta” è tornata su Greenfield. Lo sguardo si
rabbuia per ogni passo fatto in direzione della porta. Di fronte a questa
controlla le tasche: soldi, sigarette, accendino e pad. C’è tutto. Le chiavi,
ecco cosa manca, trovate agganciate su una tavoletta di legno inchiodata al
muro. Semplice, spartano. Utile. Solo un *click* basso segue l’uscita, poi l’eco
dei passi lungo il corridoio e giù dalle scale.
Non guarda
dove va, o più che altro non guarda le persone che incrocia con molta
attenzione. Una cosa che gli costa davvero cara, oltretutto. Non coglie l’ombra
dietro di sé, a seguirlo per una decina di minuti abbondante. Lo avverte il
formicolio dovuto ad una osservazione estranea troppo audace, costante.
Terribilmente fastidiosa. Non si gira, prosegue dritto fino al fondo del
mercato, poi oltre all’imbocco di un vicolo. Lo scricchiolio del selciato
calpestato da un’altra persona è come un
grido nel silenzio. Forte, che strappa via l’aria dai polmoni. Non è ansia
quella che gli stringe le viscere, solo un nervosismo più vivace che dilata le
pupille e schiaccia le labbra in una linea netta e severa. Scarta di lato, su
un vialetto costeggiato da negozi. Corre.. e lo fa nel posto meno indicato. Il
brusio si alza subito dopo. Voci che seguono, che parlano un po’ Arabo un po’
Spagnolo: gruppo misto, pessima scelta. Si riscopre un ginnasta provetto, in
grado di saltare ostacoli piuttosto alti ed a girare repentinamente senza
cadere. Crede di farcela. Lo crede *davvero* con tutto sé stesso. Fino a che
non viene caricato da un “bestione” che arriva di lato e che, in una semplice
mossa, lo schiaccia contro ad un muro. Lo schianto è secco,
porta via polvere e mattoni consumati. Sibila e digrigna i denti, aprendo gli
occhi sul mastodontico profilo di Omar. Un sorriso dai denti d’oro, un alito
fetido ed il grasso del corpo che traballa. Diamine se puzza.
- Dunham
- Oh, fuck.. Omar. Che bello… rivederti.
- E’ da un po’ che ti cerco. Dove sei stato?
- Sai, qui e li. Potevi chiamare, il mio contatto lo hai.
Un’altra
spinta, un’altra botta contro alla parete.
- Ehi, perché non ti dai una calmata? Mi stai facendo male.
Un grugnito,
poi silenzio. Lo lascia così di scatto che per poco non perde l’equilibrio,
rischiando di cadere in terra. Scrolla i vestiti, sbattendosi le mani sul petto e sulle
braccia.
- Allora, cosa c’è stavolta?
- Mi servi.
- Ok.. e per cosa?
- Lo saprai a tempo debito. Devi venire con me.
- Senti, ho da fare. Magari un’altra volta eh?
- Ho detto che devi – venire – con – me. Ora, Dunham.
- Non sono libero.
- Non mi interessa.
- Beh, a me si. Omar, si può sapere che cazzo vuoi?
- Due ore.
- Due ore per cosa? Non sono una prostituta che paghi a ore. Dimmi che vuoi.
- Due ore.
- Ohh, Omar ascoltami…
Il pugno
arriva così veloce, e così forte, che nemmeno se ne accorge. Perde i sensi
praticamente subito. Lo raccattano loro, caricandoselo in
spalla.
Due ore.
Due ore di
buio e di lavoro.
Due ore per
cercare informazioni su un giro di droga locale, piccoli spacciatori che si
fanno la guerra tra una strada e l’altra.
Due ore,
prima di tornare in stanza senza cibo ne bevande.
... e con un
occhio nero.