venerdì 7 novembre 2014

If only...

Horyzon, Capital City
Saint Peter Street numero 49

Daphne
Owen, sto male.
Owen, ho paura.

Sono bastati due messaggi per farlo partire dalla Shouye, lasciando progetti e disegni in disordine, per recuperare Regy e portarlo a casa propria. Le luci della Città sfrecciano fuori dai finestrini. Le macchine a cui tagliano la strada spremono i clacson con rabbia feroce. Owen non vede altro la meta da raggiungere, con il navigatore che pulsa silenziosamente per indicargli le scorciatoie più utili.
Sul vialetto della villetta frena con tanta foga da alzare polvere e ghiaia, catapultandosi giù dalla macchina senza nemmeno chiudere lo sportello. Affronta persino la porta di ingresso con impazienza, graffiando la toppa con la chiave fino a che non riesce ad aprire la serratura. 
- Ti ha detto cos’ha?
- No.
- Si ma io ho portato…
- .. non lo so!

Vengono accolti dal buio. Tutte le stanze sono silenziose. Tutte tranne una: la camera da letto. Da li provengono gemiti e lamenti. Gli ultimi metri vengono fatti con la testa incredibilmente leggera ed il passo sciolto di un assassino verso la vittima. Si rende conto di aver una fottutissima paura, quella che ti gela il sangue nelle vene. Non vuole girare l’angolo perché l’odore lo sente già da li: metallo e morte. Chiude gli occhi, sfiora lo stipite con le dita e fa capolino. No, non c’è. Guarda il bagno, dove l’ombra di Daphne si intravede sulle piastrelle. I piedi si sono fatti di piombo, eppure cammina nella maniera più svelta che gli riesca. Ci sono impronte ovunque, in terra. Asciugamani sporchi, aria umida. Ogni rumore svanisce e lo sguardo si concentra sulle sue gambe pallide che tremano – che non la tengono più su. La vede aggrapparsi alle pareti e la vede piangere per il dolore che sta provando. 
- Esci da qui, ti prego. Esci. Non devi vedere.
- Ormai ho già visto.

L’afferra l’attimo dopo, tirandola su. Se la carica in braccio ed i vestiti si impregnano di rosso, incollandosi alla pelle. La sensazione vischiosa del sangue gli strappa battiti intensi;  fanno così tanta pressione sulle orecchie da fargli pensare che tra un po’ gli esploderà la testa. Non ha nemmeno percezione dei muri attorno a loro. Non si rende conto del percorso che fa per depositarla sul letto – ed una terrificante sensazione di déjà-vu lo uccide. 
- Salvaci. Ti prego... ti prego salvalo. Ti prego, Owen, ti prego...

Regy li accanto non sa cosa fare. Scuote la testa, gli dice già che è finita. Ad Owen muore qualcosa nel cuore: sa già che questa promessa non potrà mantenerla. Non riuscirà a salvare nessuno, non ciò che Daphne vorrebbe almeno. Le dice solo la bugia più dolce: adesso vediamo, starai meglio. Se lo ripete fino alla nausea.
Starà meglio.
Staranno tutti meglio.

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Nicole

Ha paura del buio. Lo capisce da come evita le zone d’ombra, da quanto abbraccia la luce dei lampioni tirando a stento un sospiro di sollievo. La vede tremare, la sente fredda. Si ostina perché vuole sapere cosa le sia successo in carcere. Si intestardisce a tal punto da fare l’unica cosa che gli potesse mai venire in mente: usare il genetic. Le stringe le spalle, chiude gli occhi e la rassicura in merito al fatto che nel buio non ci sia niente di male. Lo dice nell’attimo in cui la visione di lei lo uccide lentamente.
C'è una stanza piccola. Un paio di lavatrici. Probabilmente una lavanderia. Ci sono altri detenuti. Tutte tute arancioni comunque. E' tardi ed è buio. Le luci al neon illuminano solo qualche punto ed i secondini sonnecchiano anzicchè sorvegliare. Vede Nicole. Un sacco che le cala sopra la testa e che la fa sprofondare ancora di più nel buio. Sente la paura. L'impotenza ed anche una forma sottile di angoscia accarezzargli la pelle. Sente anche le grida mentre qualcuno ride. Quel qualcuno che non è lei. Sente anche il dolore. Un paio di fitte ai fianchi e due in pieno volto. Poi arriva solo il buio a dargli modo di immaginare il resto. 

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Grace

Porta al Ranch il cavallo, come promesso; la bestia dispettosa che gli distrugge le sigarette ogni volta che cerca di prenderne una. Ci ha rinunciato da molto tempo, d’altra parte, ma ascolta ciò che dice la Dottoressa annuendo. Altre domande premono le labbra; vorrebbe chiederle così tante cose che invece si ritrova a stare in silenzio per così tanto tempo da sembrare sospetto.
- .. chi è che supera le avversità con te, Grace?
- Beh... Sul lavoro ad esempio i miei rancheri mi danno una grande mano.
- .. e fuori dal lavoro?
- Perché me lo hai chiesto? 

Già, perché glielo ha chiesto? Perché voleva scusarsi, prendersi colpe che non ha. Dirle che non voleva. Ed invece se la ritrova a piangere tra le braccia, scossa da tremiti che incidono le ossa. Così piccola e fragile che stringendo un po’ di più rischierebbe di spaccarla in piccole schegge opache. Si ritrova a prenderla in braccio per portarla verso la casa senza un minimo di amor proprio: con la febbre, a torso nudo – perché le ha ceduto l’unico strato di stoffa che aveva, per tenerla al caldo – ed incurante delle proprie condizioni.
Ha preteso di assorbire anche il suo dolore.

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Megan

La cucina del Centro è accogliente, grande abbastanza da ospitare un tavolo lungo con molte sedie. Ha preparato un paio di panini, offrendone uno alla sorella. Si interessa alla sua vita, lavorativa ed amorosa. Si scusa per essere stato poco presente, per averla trascurata. Si stuzzicano con battute senza peso e confessioni leggere; la casa è tutta loro, non c’è nessuno. 
- Quindi ora sei pericoloso?

E’ una domanda che inizialmente Owen non capisce, perciò ci scherza su. Le dice “oh, ma io sono sempre stato pericoloso” con quel suo sorriso sfacciato e l’aria da cattivo ragazzo. 
- Voglio dire, che ora non hai più, quel freno che ti impediva di stare lontano da me. In quel senso dicevo.. Se.. dovessi intrufolarmi nel tuo letto.. 
Poi gli si aggrappa addosso, stringendo la camicia. Si sporge in avanti e lo bacia. Owen percepisce il movimento in ritardo ma la scansa comunque – anche se il calore gli si è appiccicato addosso. 
- Non pensare.
- Sei mia.. sorella, non puoi chiedermi di non pensare.

Da li in poi si sgretola. Lei non piange ma sa di aver sbagliato. Viene mandata via con grande nervosismo e rabbia. Un “come hai potuto” che aleggia nell’aria. Resta il tintinnio metallico di un ciondolo lasciato sul tavolo: il pezzo di un puzzle. Nessun saluto.

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Grace

Il negozio di fiori profuma così tanto da far venire mal di testa. Owen cerca qualcosa per la sera dell’inaugurazione: vuole la composizione perfetta. Grace si gira, infilandogli un fiore nel taschino della camicia “per ricordarci questa serata alla ricerca dei colori”. Lo stesso disegno che gli disegna con le dita sul vetro della Jeep, mentre si allontanano verso casa dei MacKenzie: ha una sorpresa per lei. L’accompagna in un fienile – dopo averle fatto vivere un intenso momento di terrore a bordo del fuoristrada impazzito – guidandola nel buio, ballando, in un percorso che s’è studiato per due ore. 
- Entro quanto gli hai detto di venire a cercarci nel caso non dovessimo tornare?
- Non hanno istruzioni, per quello.
- La cosa non mi consola. 
Si ferma con lei di fronte ad un angolo, tastando l’aria alla ricerca della cordicella per accendere la luce. 
- Ora chiudi gli occhi e continua a fidarti di me.
- Continuo a fidarmi. 
- .. aprili.

 Le presenta un cucciolo curioso, che guarda entrambi. 
- E'... è? Per...  - si indica. Non riesce ad articolare bene la domanda, così sorpresa da avere difficoltà ad arrivare alla conclusione ovvia della cosa.
- E' per te, si... è il piccolo miracolo che ti serve a stare bene. 
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Horyzon, Capital City
Saint Peter Street numero 49

Daphne

E’ in giardino, in piedi di fronte ad un barile dentro al quale ha messo le coperte sporche di sangue ed I propri vestiti imbrattati. Tra le mani una bottiglia di scotch, uno dei migliori che abbia trovato in zona. Un sorso appena, poi il resto lo versa per usarlo come accelerante. Per dar fuoco non usa l’accendino, solo un pacchetto di fiammiferi reduci dal suo viaggio a Maracay. Tutti assieme, con una fiammata che s’alza verso il cielo con un ruggito.

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Elian
"Un giorno passo, okay? Quando si calmano un po' le acque. Vorrei comunque vederti, a un certo punto."
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Megan
"Penso che potresti essere tu la mia nuova casa, in fondo sei già la mia famiglia.."

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Grace

[Un video messaggio. Viene inquadrata Grace e poi il cucciolo che tiene fra le braccia. La ripresa un po' storta, segno che non c'è nessuno a farla ma probabilmente il cpad è stato posizionato da qualche parte] 
Ciao Owen! <Lei saluta e fa muovere anche la zampa del cucciolo>
Volevamo dirti che noi stiamo bene anche se c'è qualcuno qui che non ha ancora un nome. Però ci stiamo lavorando! <Esclama, arricciando il naso divertita>
Volevamo augurarti una buona giornata visto che, grazie a te, questa è la nostra prima insieme.

<Sventola la mano per mimare il ciao e il video finisce>

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Grace
"M'importa sapere solo che tu resterai. Perché io resterò per te."
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Horyzon, Capital City
Saint Peter Street numero 49

Daphne

Scivola in terra accarezzando le mattonelle ruvide della facciata con la schiena. Si abbraccia le gambe, sgranando con i piedi scalzi il terriccio inumidito dalla rugiada. Daphne dorme nel letto, troppo sedata o addolorata per riuscire a guardarsi attorno. Owen non ha lavorato, è rimasto a fissare il soffitto per tutta la notte fino a che non si è trascinato in giardino cadendo di fronte al barile, ormai pieno di cedere, che lascia scappare verso l’alto una voluta di fumo grigia e densa. Si incanta con i giochi di luce e con i rumori delle case attorno.
Pensa ed in silenzio, per la prima volta, piange


lunedì 20 ottobre 2014

Black Hole

Horyzon, Capital City
Saint Peter Street numero 49

E’ quel momento, poco prima dell’alba, durante il quale si dorme meglio. Profondamente, senza sognare. Owen ci mette un po’ a rendersi conto che il pad sta vibrando sul comodino. Ha fatto due giri completi, quando lo afferra cercandolo a tentoni nella penombra. Si mette a sedere sul letto, passandosi la mano sulla faccia stropicciata dal sonno. Accetta senza nemmeno vedere di chi si tratti, anche se sul display è comparo il nome di Lee Chernenko. La risposta è un mugugno basso e roco, di chi non ha parlato nelle ultime ore. Mette a fuoco il profilo della giornalista molto lentamente, in quella che è chiaramente una video chiamata. Le sorride, lo fa sempre. Le notizie, però, lo fanno sprofondare, poco a poco, in uno stato di delirio non ancora manifesto. Sta li immobile, tra lenzuola sfatte – che ha calciato via durante la conversazione – e cuscini gelati che lo fanno rabbrividire. Quando la chiamata termina ha un’espressione strana, sul viso. Contratta, confusa. Spersa. Sta ancora metabolizzando, in assoluto silenzio, scivolando meccanicamente giù dal materasso e muovendosi scalzo fino al bagno. Accende la luce con una manata, senza guardare il proprio riflesso nello specchio ma catapultandosi verso il lavandino per aggrapparvisi contro con le dita. Rimette l’anima, niente altro che saliva e bile. Sono conati nervosi, di pieno shock. Conati che gli fanno tremare le spalle e mancare il respiro. Si ritrova ad annaspare, senza fare rumore: l’ultima cosa che vuole è svegliare Daphne. La fronte è umida di sudore freddo, anche se sente un caldo infernale. Si sciacqua il viso, pulendo tutto: cancella tracce e prove del cedimento. E’ troppo vergognoso perché qualcuno possa capire. Si butta sotto alla doccia persino, restandoci non più di cinque minuti: quando esce, avvolto in un asciugamano, ha uno sguardo diverso. Feroce.
Si incammina velocemente verso il salotto, scartando due dei miliardi di cani che popolano casa senza elargire carezze a nessuno. Cerca la borsa di Daphne, frugando al suo interno per trovare il pad. Niente, non c’è. Impreca, poi va in cucina; lo cerca addirittura nei cassetti.
L’alba passa ma il sole non spunta: piove ancora su Capital City e la giornata è più grigia che mai. Si veste in fretta, cominciando a far pulizia del proprio dispositivo e cancellando messaggi in rapida sequenza. Tutti, nessuno escluso; persino quelli ricevuti dalla sua stessa collega.
E’ un’ora dopo che sente qualcosa muoversi, il fruscio delle lenzuola: Daphne è sveglia. Sbircia oltre l’ingresso della camera e capisce, dall’espressione che ha, che deve aver letto la notizia appena uscita. Il bip dei messaggi che riceve è immediato: non tira nemmeno ad indovinare. Salta sopra al letto con i piedi, per raggiungerla in fretta. Le sfila il pad dalle dita, legge frettolosamente – e con un colpo al cuore – e poi cancella anche la sua lista, senza fermarsi. 
- Niente più contatti. Con nessuno.

Le uniche due frasi che le dice, con quel tono raschiante ed infastidito da chissà cosa. Poi scappa di nuovo, stavolta per preparare i borsoni: in realtà non li hanno nemmeno disfatti, dopo il ritorno da Greenfield. Li carica in macchina, poi l’aspetta: stavolta la tappa sarà Seven Hills, direttamente.


Seven Hills, Port Inverness
Albergo, Stanza

Ha scritto a Nicole perchè non ne poteva fare a meno. Poche parole, da un contatto cortex nuovo che ha disattivato subito dopo. Le da un appuntamento, poi semplicemente aspetta.
Aspetta diverso tempo, prima di fare o dire qualcosa. Si prepara all’incontro, truccandosi e tingendosi i capelli. Un uomo nuovo, un uomo dai capelli rosso rame e lentiggini sparse su tutto il viso. Sceglie abiti anonimi, poco eleganti e dai colori spenti; ha sempre tutto in valigia.
Vuole tornare a casa e non può.
Non lo ha mai desiderato tanto come ora.
C’è un tatuaggio a ricordargli i suoi doveri, le promesse. Lo sfiora con la punta delle dita, inspirando e chiudendo gli occhi.

Abbandona la camera dell’albergo sapendo che al ritorno sarà più sfatto che all’andata, che il peso sullo stomaco sarà aumentato e che il bisogno di tornare a casa – tra le calde sabbie del deserto – sarà straziante. 

domenica 19 ottobre 2014

Light shall shine out of darkness

Seven Hills, Port Inverness
Albergo, Stanza

- Sai qual'è il problema, in realtà? Fai sentire ognuno.. speciale. La dove la maggioranza crede che tu tenga lontane le persone perchè non ti interessa, in realtà è il contrario.. ti interessano. Tutti. Solo che nessuno sa degli altri... eppure tutti, allo stesso tempo, lottano per te e credono, ingenuamente, di essere gli unici a farlo per la tua vita. Per la tua fiducia ed il tuo affetto. Io non ti ho mai chiesto niente, Daphne. Non ti ho mai chiesto di essere mia per sempre, non ti ho mai chiesto di amarmi ne di essermi devota. Non ti ho mai chiesto di sacrificare qualcosa per me. E questo, te lo dico sinceramente, mi ha fatto credere di essere l'unico. Non nella visione romantica di ciò che dovrebbe significare. Mi hai avvicinato, più che altro, all'idea di una famiglia. Il branco. Ma tu non sei la Lupa del mio branco: lo sei di molti altri. Perchè in tanti di venerano, in tanti ti adorano. Ma quante di queste persone ti vuole bene, D.? Bene davvero?
La stanza è in penombra. Manca l’aria, spinta e schiacciata dall’energia di un litigio che si sta sfogando ambo le parti. Gridano, strappandosi l’anima a morsi e perdendo quell’ultimo briciolo di autocontrollo utile a non implodere. Le accuse sono pesanti. Le lacrime, cadendo in terra, sono acido che corrodono. I muri sembrano creparsi per i sensi di colpa che ognuno vi spinge contro – per l’agitazione che sale, per la voglia di fuggire. Eppure nessuno dei due varca quella dannata porta che li separa dal salotto. Nessuno dei due mette fine a niente. Ha sfogato su di lei la frustrazione di un dolore che è stato causato ad altri – per colpa dei suoi battibecchi infiniti, per il suo egocentrismo.

Poi, d’un tratto, svanisce tutto. Resta solo il silenzio.



Luce buona delle stelle / Dimmi adesso dove andrò / Se non lascio cosa faccio, dimmi se poi rifletterò / E vorrei, imparare ad imitarti / Far del male come sai / Ma non posso non riesco non ho equilibri miei / Sai sai sai sai sai che / Penserei ad ognuno / ma nessuno pensa a noi / perderei la mano a farmi male se lo vuoi / Smetterei di piangere / ai tuoi segnali e poi / forse potrei fingere ma poi non ci crederei io / Correrei a salvarti a dirti che così non può durare / Correrei a parlarti a consolarti niente più dolore / Correrei a fermare il tempo e insieme a lui le sue torture / Correrei da te e ti stringerei senza scappare mai più / Correrei da te e ti stringerei senza scappare mai più / Vento buono dell'estate scalda in pace chi già sai / Fai che la mia rabbia invece si raffreddi casomai / Dal punto in cui correvo / E stavi fermo tu / Ti persi ma non scapperò mai più / Non scapperò mai più io / Non scapperò mai

Light shall shine....
.... out of darkness


martedì 14 ottobre 2014

Burlesque

Spazio, Carnival Mistress
Dunham’s suite.

Il rientro nella Suite, sulla Carnival Mistress, non si annuncia con nessuna parola ne rumore. Owen si china di fronte alla porta, recuperando un pacchettino con biglietto. Poi apre la porta, spingendola con la spalla, perdendosi nella lettura di poche righe che gli strappano un sorriso . All’interno, sul letto, Zoey già dorme. La vede da lontano, avvolta nel proprio pigiama – più comunemente definiti pantaloncini e maglietta -, e si muove per non svegliarla, sfilandosi le scarpe all’ingresso e spostandosi pian piano verso il bagno. La giacca l’abbandona su una sedia, sfoggiando ancora il rosso fuoco dei calzoni che, in un ambiente candido come la camera, lo fanno tanto sembrare un immenso punto esclamativo di pericolo. Accende la luce, gettando i vestiti in terra poco aver accostato l'uscio. Si guarda anche allo specchio, tastando all’improvviso l’interno delle tasche dei pantaloni (già buttati altrove) per trovare la pillola di Love Sugar sfusa, quella che ha tolto dalla scatolina della Rossa. Se la rigira tra i polpastrelli, sfiorato da un pensiero: no, non intende usarla. Forse gettarla nel lavandino, liberandosene. La mette assieme alla propria dose, cercando nell’astuccio per il bagno il flacone già pieno – tutto rosa. Mette le due caramelline assieme alle altre, oscillando il tubetto con un basso rumore: sono tutte li, ma quando mai le userà… chi lo sa.
Dal riflesso sbircia l’ampia vasca ad angolo, poi la doccia dalla parte opposta. Opta per quella, aprendo l’acqua e restando sotto al getto almeno dieci minuti abbondanti, sufficienti sia a scaldarsi che a cuocersi la pelle.
Non ha detto una parola da quando ha lasciato Daphne da sola. Si è allontanato, in maniera estremamente docile, nervoso e scazzato. Capita, quando succede che una serata ben programmata – e che prometteva di essere un capolavoro – si trasforma nella fiera del dramma. E’ diventato, nel giro di tre ore, il baluardo di ogni anima tormentata e piangente. Li ha visti sfilare tutti i visi affranti, da Zoey stessa piangente, ad Elian spersa, a Bettie pieno di disagio, a Daphne ansiosa ed arrabbiata. L’unico volto effettivamente sorridente è stato quello della sorella, Megan. Una apparizione fugace che s’è scontrata con il muro eretto dal lavoro.
Poi Regy: l’aveva invitato, ne era sicuro. Ci pensa uscendo dalla doccia ed avvolgendosi in un panno morbido che profuma di pulito. Raccatta il pad e compone il numero, sbirciando verso la camera per assicurarsi di non aver fatto rumore. 
- Ehi.. disturbo?
- Ahm, no.. che c’è?
- Ci sei venuto alla festa, si? Non ti ho mica visto.
- Si si, ci sono venuto.
- … e…?
- .. e cosa, Dunham? Mi sono divertito.
- Good. Bene.
- .. e tu sembravi comunque un pirla tutto vestito di rosso ma va beh.. te lo avevo già detto.
- Oh, ma allora mi hai visto! Perché diavolo non sei venuto a salutarmi?
- Mi sembravi impegnato.
- Ero circondato di persone, si. Ma non ero impegnato.. credo.
- Beh, parlavi. Sorridevi. Jeez, Dun, avevi tre belle donne attorno. Come cazzo facevi a non essere impegnato?
- Ah, ma vai a farti benedire Regy.. comunque, te la sei trovata la compagnia, si? Non ho pensato a procurartela.
- Non ho bisogno che mi trovi tu un donna, so fare da solo.
- Non ne dubito..
- .. cos’è, mi prendi per il culo?
- No, ho detto che ci credo.
- Mh.. ho visto la mora, la ragazza che avevi con te l’altro giorno che ci siamo incontrati.
- …
- .. Dun?
- Si, ci sono.
- L’ho vista, era li. Oh, era figa.
- Regy…
- Ok, ok. Comunque, era li che girava. Forse ti ha cercato, l’ho vista alzarsi un paio di volte per sbirciare la folla.
- Vedi? La prossima volta se ti fai vedere magari queste cose me le dici, eh?
- Right.
- Va beh, devo andare adesso. Vorrei provare a dormire.
- Con la Rossa che ti sei portato in camera?
- .. come caz.. no, non voglio sapere.
- Ehi, l’ho vista andare in camera tua e quindi ho pensato....
- Nah, hai pensato male.
- Ok. Ci sentiamo quando torni su Horyzon.
- Ya.

La comunicazione non si interrompe bruscamente, sfuma in un silenzio che chiarisce ad entrambi che non hanno niente altro da dirsi. Mette piede in camera silenziosamente, aggirando l’ampio letto per arrivare al borsone. Tira fuori i vestiti, con una ulteriore tappa nel bagno per cambiarsi, tornando poi verso il letto vagamente più rilassato. Afferra le coperte e le scosta, pronto a farsi scivolare sul materasso. Un mormorio di Zoey lo fa sobbalzare letteralmente – allora rilassato non lo era poi molto, mh?! – con tanto di sospiro troncato in gola e mezza bestemmia ringhiata tra i denti. 
- Mannaggia a te Red, mi farai prendere un infarto. – anche se per quello ci ha già pensato Megan giusto un’ora prima.

Ritrova il controllo, ci riprova, solo per sentirla mormorare un: “cos’è successo?”, assonnato e borbottato. 
- Mh, da dove inizio. Chiamiamola seratina di merda. – cadendo con la testa sul cuscino e guardando il soffitto. – Non ho mangiato, non ho bevuto e mi sono reso conto che il ‘verse ha un problema.. ma che ha scelto obbligatoriamente me per risolverglieli. – con un filo sottile di sarcasmo – Devo capire per quale strano meccanismo di energie negative io sia diventato il fulcro delle depressioni altrui ma, ehi.. lo capirò prima o poi. – coprendosi la faccia con una mano. – Tu, piuttosto? Mi dici perché hai pianto o no? Perché, davvero.. io la testa sulle spalle vorrei tenerla.. sai com’è.. – sorridendole nel buio.

La verità è che non ha voglia di intrattenersi ancora a parlare, perciò la tronca sul nascere con un: “facciamo che me lo racconti domattina, ora dormi”. Girandosi su un fianco – verso di lei – coprendo entrambi in maniera meticolosa e curata. Si mette a fissarle la chioma, le ciglia e le guance. Conta, nella speranza di potersi addormentare presto, ma tutto quello a cui riesce a pensare è di dover fare qualcosa. Non si sa cosa ma.. qualcosa. 

martedì 7 ottobre 2014

Until the Day I Die

Horyzon, Capital City
Sede della Shouye, Vasca Termale

- ….stavo scherzando Owen. E la situazione non è impari, forse sul lavoro ma non sulla vita. Lascia perdere va bene? Nella vita sono io quella in difetto. Ma... questa cosa è malsana, ok? Basta.
- .. che caz... cavolo mi sta a significare, D.? Cosa dovrebbe essere malsano? Devi smetterla di sminuirti, quante volte te l'ho detto?! Non sei in difetto. Non devi niente alla vita: è la vita che deve qualcosa a te. Perchè questo non lo vuoi capire?!
- Non avrei mai dovuto indossare quella maledetta collana! Questo tuo esserci sempre. Sono stufa di vedere persone annullarsi a causa mia , Owen. Basta! 
- Dillo ancora una volta, Daphne. Solo una.  Di ancora una cosa del genere e se sopravvivi giuro che ti farò passare l'inferno. Tu non mi controlli. Tu non decidi cosa io debba o non debba fare. Tu non hai potere sulle mie scelte. Tu la devi smettere di pensare agli altri e concentrarti su di te. Darei la vita per te.. ma vedertela sprecare così mi fa venire il voltastomaco.  Mi sembra sempre di doverti salvare ad un passo dal baratro perchè sembra che non te ne freghi un cazzo di lasciarti salvare. Ti preoccupi tanto di come stanno quelli attorno a te, di tenerli lontani, di non includerli nella tua "follia." Facendo così tu la gente la fai soffrire, hai capito?  Tu strappi l'anima di chi per te darebbe l'ultima goccia di sangue e l'ultimo battito. Non essere così ingrata. 

L’acqua è calda, dovrebbe essere piacevole… invece si ha la sensazione di bollire in una pentola come un’aragosta viva. Pelle, ossa e muscoli fanno male. Il respiro esce a fatica dai polmoni. Il metallo sotto alle dita si piega, ammorbidendosi – o questa è la sensazione che da quando l’umidità che scivolare via i palmi dalla scaletta alla quale Owen si tiene, per bloccarla. La lascia senza dire altro. Senza degnarla di uno sguardo. Esce dalla vasca sfruttandone il bordo. Non si asciuga nemmeno: indossa la maglietta sul costume bagnato, lasciando una scia di gocce trasparenti sulle piastrelle. 
- Hai ragione. Io faccio tutte queste cose che hai detto.
- Vorrà dire che imparerai a rimediare.. tanto se vorrai farmela pagare in qualche modo ti farai del male. Fosse anche non mangiando per due giorni e svenendo dopo due passi. Perchè sapresti di farmi sentire in colpa e comunque ti andrebbe bene così.
- Non è vero! Non è vero! Smettila, la devi smettere! 

Non sta a pensarci su molto: corre a raccoglierla da terra, quando si lascia cadere tappando le orecchie con le mani. E grida. Ed impazzisce. E piange.
- Guardami. Guardami!
- Voglio andare a dormire. Voglio tornare in camera. 

La guarda come se la vedesse realmente per la prima volta. Si rende conto di quante energie ha speso per lei, di quante notti insonni s’è lasciato alle spalle.. eppure rifarebbe tutto da capo, ogni cosa, se sapesse di poterla avvicinare ad un – anche piccolo – miglioramento. Vorrebbe dirle che ne è valsa la pena, che può contare su un affetto sincero e disinteressato. L’unica cosa che riesce a fare, al contrario, è lasciarla andare con la faccia contratta in una smorfia piena di disagio. Infastidita. La segue verso la stanza, quando si aggrappa ai muri piuttosto che lasciarsi aiutare. La abbandona. Per la prima notte da quando l’ha trovata in una pozza di sangue, l’abbandona. Lo fa senza dirle che stanotte non dormirà con lei, nemmeno se lo chiedesse. Esce dalla Shouye ancora fradicio per il bagno, infreddolito per l’aria della sera che gli attraversa il corpo come un pugno. Si mette solo un paio di scarpe da ginnastica, poi esce in strada. La Casa viene lasciata alle spalle, addentrandosi nel centro della città fino a lasciarlo del tutto. Sa dove andare.


Horyzon, Capital City
Sobborghi, Regy’s Apartment

(2 ore dopo)

E’ ormai notte fonda e per le strade girano poche persone. Soprattutto dove abita Regy. Un piccolo appartamento nei sobborghi, circondato da diversi fast food ed alcuni ristoranti che a quell’ora fanno solo cibo d’asporto. Si presenta alla sua porta senza nemmeno il pad, spaccato, pestato e lasciato in un cassonetto lungo il tragitto. Bussa due volte, con strabiliante calma. Lo accoglie un biondino dall’aria assonnata che nemmeno apre: guarda dallo spioncino. 
- Non compro niente..
- .. speravo avessi tu qualcosa da vendermi.

La voce è cavernosa. Entrambe lo sono. Uno perché appena svegliato, l’altro perché estremamente stanco e sfatto. Si sente il cigolio delle serrature ed i vari “lucchetti” piazzati a sicurezza. Emerge dalla penombra di qualche lampada un profilo non proprio smilzo ma a suo modo compatto, magro. I capelli spettinati, la barba incolta ed occhi socchiusi che faticano a mettere a fuoco chi ha di fronte. 
- .. che ci fai qui? Ho dimenticato l’appuntamento? – sa essere divertente quando vuole.
- Ho bisogno di un posto per la notte… e per domani.
- Ma una casa ce l’hai. Ed è pure grossa, Dunham. – ma lo fa passare, scostandosi dall’ingresso.

L’arredamento lascia a desiderare, eppure Owen sa che Reginald di soldi ne ha. Fin troppi. Vivere in un simile tugurio fa parte dell’essere completamente anonimi, per non attirare gli sguardi di nessuno. E fa bene: chi mai gli romperebbe le palle alle 2 del mattino a parte l’accompagnatore? 
- Sei andato in piscina?
- Ero alla Casa.
- .. e sei qui perché….
- … perché ho bisogno di un po’ d’aria.
- Qui troverai tutto tranne che aria.

Ed in effetti ha ragione. Ci sono scatole stipate ovunque, strumenti medici sparpagliati in tante bustine di plastica, tutti sterilizzati. Troppi medikit aperti, ognuno con la sua attrezzatura per l’intervento richiesto. 
- Hai pazienti in casa?
- No, e dove li metterei? Sul balcone?
- Giusto. Hai da mangiare?
- Qualcosa.. guarda in cucina.

Ci trova solo scatole da asporto vecchie di almeno un giorno. Spaghetti di riso, verdure saltate, qualche spring roll. Tutto freddo. Mangia con una forchetta senza lamentarsi, poggiandosi al bancone. Regy nel frattempo si è reso presentabile, con un paio di pantaloni ed una maglietta che ha l’aria più pulita. Gli mette un cambio sullo schienale della sedia ma non glielo offre apertamente: lo lascia in bellavista, come una cosa da ricordare. 
- Birra?
- Qualcosa di più forte?
- .. mh. Ho della vodka, me l’ha data un cliente.
- E’ buona?
- E’ forte.
- Andata.

Per il poco che ha mandato giù non è abbastanza: sbronzarsi, però, non è mai stato così “bello”.  Un bicchiere dopo l’altro, senza alcun ritegno, con la sensazione dello stomaco in fiamme e della gola squarciata dall’alcool.  Non si lamenta, non racconta. Non dice assolutamente niente della serata che ha appena passato. Ride solo come un idiota, senza percepire correttamente la stanza attorno a sé. Gira tutto così velocemente che quando sbatte la testa in terra nemmeno se ne accorge. Regy si addormenta sdraiato sul tavolo. Owen abbracciato alle gambe di una sedia con la bottiglia spaccata, ormai vuota, li accanto.
Sul braccio è emersa una scritta che graffia la pelle, sporcata di sangue ed inchiostro – una che non ricorderà di essersi fatto tatuare da Regy solo mezz’ora prima: Until the Day I Die.



domenica 28 settembre 2014

Hate that I love you

Horyzon, pressi Capital City
Casa indipendente, Saint Peter Street, numero 49

La pioggia ha smesso di scendere da un po’, anche se il parabrezza è ancora bagnato. Nell’abitacolo del Suv c’è ancora l’odore di Nicole, sia del suo profumo che della sua pelle. E’ fermo nel vialetto di Casa, il motore spento e lo sguardo basso, a fissarsi le dita. Stringe le chiavi senza forza, rigirandole in un tintinnio metallico basso che scaccia appena il rumore del navigatore con la sua voce che annuncia l’arrivo a destinazione. Si tocca il collo, cercando sotto alla camicia aperta il ciondolo raffigurante il lupo che ulula – quello che gli ha regalato Daphne. Ci giocherella in maniera distratta, poi gli capita di guardare verso il sedile del passeggero e di trovarlo incredibilmente vuoto. E’ allora, in una panoramica più ampia, che si rende conto della scatola sul sedile posteriore. Il regalo è ancora li, abbandonato. Gli si stringe il cuore: non gliel’ha dato, dopo averla riaccompagnata. E’ scappato dopo qualche parola, un bacio sfuggente ma nessuna promessa.
Ora, invece, contempla il buio oltre i finestrini, guardando verso la villetta ed il prato bagnato. C’è qualche luce accesa: probabilmente è Serafel che si aggira tra una stanza e l’altra. Recupera il pad, accorgendosi del messaggio di Daphne: non torna a casa, non presto almeno. Le risponde, cominciando uno scambio veloce che lo lascia con un sospiro. Apre la portiera e si lascia scivolare giù, raccattando la giacca che si butta sulle spalle, appallottolando la cravatta - già levata - nella tasca dei pantaloni. Ha l’espressione sfatta, non quella di uno che si è appena concesso una serata di sesso, in macchina, dopo una litigata. Amore disperato, forse. Apre la porta in silenzio, sbirciando l’ingresso. Nessuno. Non sente rumori. Non subito, almeno. Gli otto cani lo investono un attimo dopo, uggiolando e scodinzolando alla ricerca di attenzioni. Fa una carezza a tutti, poi supera il corridoio puntando alla propria camera. Vi entra socchiudendo la porta, conscio che tanto la solitudine non durerà in eterno – visto il branco di animali che si ritrovano. Lancia i vestiti sul letto, deviando verso il bagno. Quella porta invece la chiude persino con la chiave, aprendo l’acqua della doccia. Si guarda allo specchio, gli occhi tristi e l’espressione tesa.
- Certo che sei proprio un idiota…
Se lo dice da solo, senza alcun sorriso. E’ un insulto, chiaro e pulito. Cerca conforto nel getto tiepido, con l’acqua che gli scivola addosso. Resta poggiato alla parete con entrambe le mani, il capo chino ed i capelli separati dal getto che cala sul collo. Ci sta una buona mezz’ora, senza muoversi molto, poi si avvolge in un asciugamano pulito strofinandone un secondo sulla testa. Non sceglie i vestiti, recupera solo un paio di boxer che si infila in maniera svogliata, uscendo così dalla stanza come se nulla fosse. Staunch e Sunshine lo seguono, mentre il resto del gruppo sonnecchia nel salotto. Lo affiancano vicino al frigo, che apre cercando dell’alcool. Ha poca fortuna, a quanto pare. Ripiega su un altro armadietto, vuoto anche quello. Torna verso la stanza cercando il pad tra i vestiti sporchi. Compone un numero.
- Ti va di andare ad una festa, stasera?
- .. cosa, che.. Dunham, sono le 3 del mattino.
- Secondo te me ne frega qualcosa?!  - alza la voce più del necessario, senza accorgersene.
- .. perché non te ne vai a fan…
- Ti prego, Regy. – il tono cambia, si fa basso e roco.
- Jeeez, Dunham. Cosa cazz… va bene, ok. Solito posto?
- No, mi sono trasferito. Ti mando l’indirizzo. Ti aspetto in giardino.
- Ma fa un freddo maledetto, Dun.. in giardino?!
- Senti, porta da bere, al resto ci penso io.

Aspetta Regy circa un’ora, prima di vedere oltre le vetrate lo sfarfallio dei fari. Esce vestito pesante, portando una giacca anche per l’amico. L’unico che gli è rimasto, e che sappia tutto, a quanto pare. Apre due sedie un po’ malridotte, piazzandole sotto la tettoia della casa. Il lato più lontano che ci sia, per non dare fastidio all’unica inquilina rimasta. Regy lo guarda, Owen non parla. Si scola solo una bottiglia di birra dietro l’altra in perfetto silenzio, fino a che la lingua non si scioglie un po’. Gli racconta della festa, del viaggio in macchina, del Belvedere. Tutto.

***
(sei ore prima)

- Dimmi, cosa vuoi che faccia?
Nicole Moore non chiede mai niente, è per questo che Owen di solito insiste per forzarle un po’ la mano. Le chiede di essere sincera, di svelare i suoi dubbi. Di parlare. Questa volta, però, preferirebbe guardarla tacere e basta. Le varie risposte gli si inchiodano in gola. “Baciami”. “Ti ho spezzato il cuore e lo sto spezzando anche a me stesso”. Niente di tutto questo, semplicemente un: non odiarmi.
La sente imprecare, la vede lanciarsi per raggiungerlo. Per riversare in un bacio tutto l’odio che prova, con forza e prepotenza. Lei che, dopo, chiede di “non andare via”. Lo ripete più di una volta. Gli dice “io credo di amarti” ed è ciò che scatena il panico. Owen le afferra le braccia con forza, con l’intenzione – pare – di lasciarla andare. Di spingerla via. Invece resta a guardarla con sguardo torvo e muscoli tesi. Poi l’avvicina, sussurrandole: allora non lasciarmi.
Non riesce a dire che forse l’ama anche lui.

***

L’ultima bottiglia tintinna in terra assieme alle altre. Regy raccoglie tutto in silenzio, scuotendo la testa.
- Avrei dovuto portarti qualcosa per dormire…
- No, non ne ho bisogno.
- Secondo me si, hai un aspetto di merda.
- Pazienza, passerà.

Lo lascia così, barcollando verso l’interno. Si aggrappa agli stipiti delle porte, agli angoli del muro, e non si sa come in camera propria ci arriva strisciando, con tutta la casa che gira su sé stessa. Non riesce a raggiungere il letto, cade molto prima dritto verso il comodino. Spacca la lampada, fa cadere la sveglia digitale e stampa la faccia contro l’angolino di legno. Crolla di lato, portandosi dietro solo un pezzo di coperta che non lo scalda.

Si sveglia un’ora dopo, con la testa che gira e la bocca impastata. Si mette in ginocchio, tastandosi il viso umidiccio, vicino al sopracciglio. Si è tagliato: poco male. Arranca tra i cuscini, gettando la felpa alla rinfusa senza guardare dove atterrerà. Non riesce a riprendere sonno, solo a fissare il vuoto li accanto, nel buio. In tempo, almeno, per sentire Daphne rientrare. Aveva detto che lo avrebbe svegliato per raccontargli una storia, perciò chiude gli occhi e finge di dormire – facendosi trovare in uno stato pietoso, puzzolente di alcool e frastornato. Ma con ancora un sorriso da spendere,  per lei. Uno i quelli poco convinti, stanchi e spezzati, che chiedono solo di non fare domande. 

martedì 23 settembre 2014

Blood and Secrets

Horyzon, Capital City
Grattacielo, Daphne’s House, 30° piano


Quando Owen sente vibrare il pad non comprende la portata del segnale gps che continua a lampeggiare sullo schermo. Lo vede, seguendone il “bip” con ogni battito del cuore. Frequenza cortex: Daphne.
In meno di tre secondi è scappato dall’ospedale, munito di bastone che lo fa arrancare giù dalle scale e poi fuori, in strada. Ad aspettarlo c’è una macchina. Alla guida Regy. Si guardano ma entrambi sanno che non c’è tempo per le spiegazioni. Lo esorta a correre, a bruciare ogni singolo semaforo continuando a fare da navigatore. A destra. A sinistra. Ancora a destra. 
- Trenta minuti, Regy. Trenta minuti al massimo.

E’ il tempo limite per la sua fuga, giusto per mettere in chiaro le cose.
Entra nel grattacielo di vetro, in una delle zone più ricche di Capital City, con il cuore in gola. Schiaccia i pulsanti dell’ascensore come se potesse farlo andare più veloce. Il pianerottolo lo trova silenzioso e vuoto. Una porta sola, all’ultimo piano. Trentesimo. Controlla il segnale, ancora luminoso. Ancora assordante. Bussa, ma non risponde nessuno. La chiama, dall’esterno, ma non riceve risposta. Si agita. Ha paura. Molla il bastone in terra, estraendo una semiautomatica che gli ha passato l’amico. Bussa più forte, la chiama con più enfasi. Niente. Poco dopo inizia a sfondare la porta. Una, due, tre volte, fino a che lo stipite non cede ed il primo passo lungo che fa lo introduce in un ingresso luminoso. Un salotto, la cucina. Tutto di un bianco accecante. La chiama ancora ma Daphne non c’è. O meglio, c’è ma non dice dove trovarla. Poi Owen guarda in alto, verso il soppalco. Il letto nero, la scala. Un brivido gelido gli corre lungo la schiena. Si affretta su per ogni gradino, fermandosi solo quando individua la bottiglia di vodka vuota – in terra – ed un flacone di farmaci vuoti. Dalla porta socchiusa del bagno proviene una lama di luce, sottile. Fredda. Allunga una mano, afferrando la maniglia. Si rende conto che è uno di quei momenti che ricorderà per tutta la vita. Non importa quanti orrori possa aver visto negli anni. Non importa quanta gente ha ammazzato o ferito. Ci sono cose che ti scavano l’anima e lasciano un solco profondo. Si apre la via su un pavimento candido, sulle prime piastrelle. Lo sguardo, però, inquadra immediatamente la figura stesa in terra, avvolta in un asciugamano. Ferita, macchiata di sangue. Una pozza che si allarga sotto ai polsi tagliati, sporcandole i capelli neri sparsi in maniera disordinata. Si muove senza nemmeno rendersene conto. Sbatte le ginocchia in terra. La raccoglie. Urla il suo nome per farla svegliare. Daphne mugola. Guarda ma non vede. La tiene su con un braccio, con la mano libera cerca il pad in tasca. Macchia lo schermo di impronte rossastre, lo stesso sangue che gli ha impregnato i pantaloni. La prima è una chiamata al suo “autista”. 
- Regy, rispondi cazzo… - prima di ogni squillo.
- … che c’è?
- Muovi il culo, subito! Vieni su immediatamente!

La chiama ancora. Lo fa sempre. La cerca dietro quel velo di sonnolenza indotta da troppi farmaci.
Non la sballotta, la sostiene. Mugugna ed Owen prende quel singolo verso come una cosa positiva. Non ci pensa due volte a ficcarle due dita in gola. Le dice persino “mi spiace” ma lo fa. La fa vomitare sul tappetino, tenendola su. Lei si muove ancora. Reagisce. 
- Parlami, forza… svegliati..

Una disperazione che trapela da ogni singola lettera. Nel frattempo parte una chiamata vocale, diretta ad Andres. 
- Ho ricevuto una segnalazione cortex. Sono da Daphne. E' drogata, ha bevuto e si è tagliata. Dove sei? Ho bisogno di te.
- God. Sono a casa.
- Vieni?! - è imperativo.

Sfila l’asciugamano dal corpo. La spoglia ma non la guarda. Ha tagli ovunque, escoriazioni di media entità. Le pulisce il viso, i polsi, poi la tira su e la porta in camera. La stende sul letto, tornando verso il bagno. Cerca il pad, lasciato in terra, poi altri panni per fermare l’emorragia – non grave, fortunatamente. 
- Parlami.. parlami ancora.. sai dove sei?

Nel frattempo arriva Regy. Gli urla ordini, lo manda a cercare bende e disinfettante. La comunicazione con Andres è breve, anche se costante. Si intervalla a pezzi di conversazione fatti con Daphne, direttamente. Per tenerla sveglia, per farla ragionare.

Il resto accade tutto troppo velocemente.
Andres che arriva e che caccia Regy.
Andres che sale in camera precipitandosi verso Daphne.
Andres che mette da parte ogni delicatezza in favore di una premura più severa, volta all’ordine. Alla protezione.
Andres che da ordini.
Andres che decide. 
- Non sei tu a decretare cosa mi basta.
- Giusto. Perchè quel che dico io non vale un cazzo.

Andres che alza la voce.
Andres che nella notte, quando c’è solo silenzio, chiede scusa.
Daphne dorme.
Owen lo abbraccia. Lo rassicura. “E’ tutto a posto”.