domenica 28 settembre 2014

Hate that I love you

Horyzon, pressi Capital City
Casa indipendente, Saint Peter Street, numero 49

La pioggia ha smesso di scendere da un po’, anche se il parabrezza è ancora bagnato. Nell’abitacolo del Suv c’è ancora l’odore di Nicole, sia del suo profumo che della sua pelle. E’ fermo nel vialetto di Casa, il motore spento e lo sguardo basso, a fissarsi le dita. Stringe le chiavi senza forza, rigirandole in un tintinnio metallico basso che scaccia appena il rumore del navigatore con la sua voce che annuncia l’arrivo a destinazione. Si tocca il collo, cercando sotto alla camicia aperta il ciondolo raffigurante il lupo che ulula – quello che gli ha regalato Daphne. Ci giocherella in maniera distratta, poi gli capita di guardare verso il sedile del passeggero e di trovarlo incredibilmente vuoto. E’ allora, in una panoramica più ampia, che si rende conto della scatola sul sedile posteriore. Il regalo è ancora li, abbandonato. Gli si stringe il cuore: non gliel’ha dato, dopo averla riaccompagnata. E’ scappato dopo qualche parola, un bacio sfuggente ma nessuna promessa.
Ora, invece, contempla il buio oltre i finestrini, guardando verso la villetta ed il prato bagnato. C’è qualche luce accesa: probabilmente è Serafel che si aggira tra una stanza e l’altra. Recupera il pad, accorgendosi del messaggio di Daphne: non torna a casa, non presto almeno. Le risponde, cominciando uno scambio veloce che lo lascia con un sospiro. Apre la portiera e si lascia scivolare giù, raccattando la giacca che si butta sulle spalle, appallottolando la cravatta - già levata - nella tasca dei pantaloni. Ha l’espressione sfatta, non quella di uno che si è appena concesso una serata di sesso, in macchina, dopo una litigata. Amore disperato, forse. Apre la porta in silenzio, sbirciando l’ingresso. Nessuno. Non sente rumori. Non subito, almeno. Gli otto cani lo investono un attimo dopo, uggiolando e scodinzolando alla ricerca di attenzioni. Fa una carezza a tutti, poi supera il corridoio puntando alla propria camera. Vi entra socchiudendo la porta, conscio che tanto la solitudine non durerà in eterno – visto il branco di animali che si ritrovano. Lancia i vestiti sul letto, deviando verso il bagno. Quella porta invece la chiude persino con la chiave, aprendo l’acqua della doccia. Si guarda allo specchio, gli occhi tristi e l’espressione tesa.
- Certo che sei proprio un idiota…
Se lo dice da solo, senza alcun sorriso. E’ un insulto, chiaro e pulito. Cerca conforto nel getto tiepido, con l’acqua che gli scivola addosso. Resta poggiato alla parete con entrambe le mani, il capo chino ed i capelli separati dal getto che cala sul collo. Ci sta una buona mezz’ora, senza muoversi molto, poi si avvolge in un asciugamano pulito strofinandone un secondo sulla testa. Non sceglie i vestiti, recupera solo un paio di boxer che si infila in maniera svogliata, uscendo così dalla stanza come se nulla fosse. Staunch e Sunshine lo seguono, mentre il resto del gruppo sonnecchia nel salotto. Lo affiancano vicino al frigo, che apre cercando dell’alcool. Ha poca fortuna, a quanto pare. Ripiega su un altro armadietto, vuoto anche quello. Torna verso la stanza cercando il pad tra i vestiti sporchi. Compone un numero.
- Ti va di andare ad una festa, stasera?
- .. cosa, che.. Dunham, sono le 3 del mattino.
- Secondo te me ne frega qualcosa?!  - alza la voce più del necessario, senza accorgersene.
- .. perché non te ne vai a fan…
- Ti prego, Regy. – il tono cambia, si fa basso e roco.
- Jeeez, Dunham. Cosa cazz… va bene, ok. Solito posto?
- No, mi sono trasferito. Ti mando l’indirizzo. Ti aspetto in giardino.
- Ma fa un freddo maledetto, Dun.. in giardino?!
- Senti, porta da bere, al resto ci penso io.

Aspetta Regy circa un’ora, prima di vedere oltre le vetrate lo sfarfallio dei fari. Esce vestito pesante, portando una giacca anche per l’amico. L’unico che gli è rimasto, e che sappia tutto, a quanto pare. Apre due sedie un po’ malridotte, piazzandole sotto la tettoia della casa. Il lato più lontano che ci sia, per non dare fastidio all’unica inquilina rimasta. Regy lo guarda, Owen non parla. Si scola solo una bottiglia di birra dietro l’altra in perfetto silenzio, fino a che la lingua non si scioglie un po’. Gli racconta della festa, del viaggio in macchina, del Belvedere. Tutto.

***
(sei ore prima)

- Dimmi, cosa vuoi che faccia?
Nicole Moore non chiede mai niente, è per questo che Owen di solito insiste per forzarle un po’ la mano. Le chiede di essere sincera, di svelare i suoi dubbi. Di parlare. Questa volta, però, preferirebbe guardarla tacere e basta. Le varie risposte gli si inchiodano in gola. “Baciami”. “Ti ho spezzato il cuore e lo sto spezzando anche a me stesso”. Niente di tutto questo, semplicemente un: non odiarmi.
La sente imprecare, la vede lanciarsi per raggiungerlo. Per riversare in un bacio tutto l’odio che prova, con forza e prepotenza. Lei che, dopo, chiede di “non andare via”. Lo ripete più di una volta. Gli dice “io credo di amarti” ed è ciò che scatena il panico. Owen le afferra le braccia con forza, con l’intenzione – pare – di lasciarla andare. Di spingerla via. Invece resta a guardarla con sguardo torvo e muscoli tesi. Poi l’avvicina, sussurrandole: allora non lasciarmi.
Non riesce a dire che forse l’ama anche lui.

***

L’ultima bottiglia tintinna in terra assieme alle altre. Regy raccoglie tutto in silenzio, scuotendo la testa.
- Avrei dovuto portarti qualcosa per dormire…
- No, non ne ho bisogno.
- Secondo me si, hai un aspetto di merda.
- Pazienza, passerà.

Lo lascia così, barcollando verso l’interno. Si aggrappa agli stipiti delle porte, agli angoli del muro, e non si sa come in camera propria ci arriva strisciando, con tutta la casa che gira su sé stessa. Non riesce a raggiungere il letto, cade molto prima dritto verso il comodino. Spacca la lampada, fa cadere la sveglia digitale e stampa la faccia contro l’angolino di legno. Crolla di lato, portandosi dietro solo un pezzo di coperta che non lo scalda.

Si sveglia un’ora dopo, con la testa che gira e la bocca impastata. Si mette in ginocchio, tastandosi il viso umidiccio, vicino al sopracciglio. Si è tagliato: poco male. Arranca tra i cuscini, gettando la felpa alla rinfusa senza guardare dove atterrerà. Non riesce a riprendere sonno, solo a fissare il vuoto li accanto, nel buio. In tempo, almeno, per sentire Daphne rientrare. Aveva detto che lo avrebbe svegliato per raccontargli una storia, perciò chiude gli occhi e finge di dormire – facendosi trovare in uno stato pietoso, puzzolente di alcool e frastornato. Ma con ancora un sorriso da spendere,  per lei. Uno i quelli poco convinti, stanchi e spezzati, che chiedono solo di non fare domande. 

martedì 23 settembre 2014

Blood and Secrets

Horyzon, Capital City
Grattacielo, Daphne’s House, 30° piano


Quando Owen sente vibrare il pad non comprende la portata del segnale gps che continua a lampeggiare sullo schermo. Lo vede, seguendone il “bip” con ogni battito del cuore. Frequenza cortex: Daphne.
In meno di tre secondi è scappato dall’ospedale, munito di bastone che lo fa arrancare giù dalle scale e poi fuori, in strada. Ad aspettarlo c’è una macchina. Alla guida Regy. Si guardano ma entrambi sanno che non c’è tempo per le spiegazioni. Lo esorta a correre, a bruciare ogni singolo semaforo continuando a fare da navigatore. A destra. A sinistra. Ancora a destra. 
- Trenta minuti, Regy. Trenta minuti al massimo.

E’ il tempo limite per la sua fuga, giusto per mettere in chiaro le cose.
Entra nel grattacielo di vetro, in una delle zone più ricche di Capital City, con il cuore in gola. Schiaccia i pulsanti dell’ascensore come se potesse farlo andare più veloce. Il pianerottolo lo trova silenzioso e vuoto. Una porta sola, all’ultimo piano. Trentesimo. Controlla il segnale, ancora luminoso. Ancora assordante. Bussa, ma non risponde nessuno. La chiama, dall’esterno, ma non riceve risposta. Si agita. Ha paura. Molla il bastone in terra, estraendo una semiautomatica che gli ha passato l’amico. Bussa più forte, la chiama con più enfasi. Niente. Poco dopo inizia a sfondare la porta. Una, due, tre volte, fino a che lo stipite non cede ed il primo passo lungo che fa lo introduce in un ingresso luminoso. Un salotto, la cucina. Tutto di un bianco accecante. La chiama ancora ma Daphne non c’è. O meglio, c’è ma non dice dove trovarla. Poi Owen guarda in alto, verso il soppalco. Il letto nero, la scala. Un brivido gelido gli corre lungo la schiena. Si affretta su per ogni gradino, fermandosi solo quando individua la bottiglia di vodka vuota – in terra – ed un flacone di farmaci vuoti. Dalla porta socchiusa del bagno proviene una lama di luce, sottile. Fredda. Allunga una mano, afferrando la maniglia. Si rende conto che è uno di quei momenti che ricorderà per tutta la vita. Non importa quanti orrori possa aver visto negli anni. Non importa quanta gente ha ammazzato o ferito. Ci sono cose che ti scavano l’anima e lasciano un solco profondo. Si apre la via su un pavimento candido, sulle prime piastrelle. Lo sguardo, però, inquadra immediatamente la figura stesa in terra, avvolta in un asciugamano. Ferita, macchiata di sangue. Una pozza che si allarga sotto ai polsi tagliati, sporcandole i capelli neri sparsi in maniera disordinata. Si muove senza nemmeno rendersene conto. Sbatte le ginocchia in terra. La raccoglie. Urla il suo nome per farla svegliare. Daphne mugola. Guarda ma non vede. La tiene su con un braccio, con la mano libera cerca il pad in tasca. Macchia lo schermo di impronte rossastre, lo stesso sangue che gli ha impregnato i pantaloni. La prima è una chiamata al suo “autista”. 
- Regy, rispondi cazzo… - prima di ogni squillo.
- … che c’è?
- Muovi il culo, subito! Vieni su immediatamente!

La chiama ancora. Lo fa sempre. La cerca dietro quel velo di sonnolenza indotta da troppi farmaci.
Non la sballotta, la sostiene. Mugugna ed Owen prende quel singolo verso come una cosa positiva. Non ci pensa due volte a ficcarle due dita in gola. Le dice persino “mi spiace” ma lo fa. La fa vomitare sul tappetino, tenendola su. Lei si muove ancora. Reagisce. 
- Parlami, forza… svegliati..

Una disperazione che trapela da ogni singola lettera. Nel frattempo parte una chiamata vocale, diretta ad Andres. 
- Ho ricevuto una segnalazione cortex. Sono da Daphne. E' drogata, ha bevuto e si è tagliata. Dove sei? Ho bisogno di te.
- God. Sono a casa.
- Vieni?! - è imperativo.

Sfila l’asciugamano dal corpo. La spoglia ma non la guarda. Ha tagli ovunque, escoriazioni di media entità. Le pulisce il viso, i polsi, poi la tira su e la porta in camera. La stende sul letto, tornando verso il bagno. Cerca il pad, lasciato in terra, poi altri panni per fermare l’emorragia – non grave, fortunatamente. 
- Parlami.. parlami ancora.. sai dove sei?

Nel frattempo arriva Regy. Gli urla ordini, lo manda a cercare bende e disinfettante. La comunicazione con Andres è breve, anche se costante. Si intervalla a pezzi di conversazione fatti con Daphne, direttamente. Per tenerla sveglia, per farla ragionare.

Il resto accade tutto troppo velocemente.
Andres che arriva e che caccia Regy.
Andres che sale in camera precipitandosi verso Daphne.
Andres che mette da parte ogni delicatezza in favore di una premura più severa, volta all’ordine. Alla protezione.
Andres che da ordini.
Andres che decide. 
- Non sei tu a decretare cosa mi basta.
- Giusto. Perchè quel che dico io non vale un cazzo.

Andres che alza la voce.
Andres che nella notte, quando c’è solo silenzio, chiede scusa.
Daphne dorme.
Owen lo abbraccia. Lo rassicura. “E’ tutto a posto”.


mercoledì 17 settembre 2014

Sadness and Sorrow

(Post scritto a quattro mani)

Horyzon, Capital City
Terapia Intensiva, Stanza 23
(Owen)
Ha smesso di contare i secondi, i minuti e le ore.
Ha smesso di cercare un dettaglio affascinante in un mare di bianco puro e silenzio.
Ha smesso di sforzarsi, cercando di muovere le dita dei piedi.
Ha smesso di sperare e basta.
Per quel che lo riguarda, almeno.
Si rende conto di soffrire di tremenda ansia da abbandono. Vede solo medici ed infermiere, gli stessi tutti i giorni.
Confida in un viso amico, prima o poi. In un sorriso che non sia solo di falsa cortesia.
Si detesta, per la propria debolezza, conscio di pretendere senza dare. O di dare troppo senza pretendere niente, questo sarebbe più giusto.
Quando sente bussare, dopo aver fissato ininterrottamente le immagini della holotv per due ore, si rende conto che non ha più alcun desiderio: l’ha soffocati tutti da un pezzo. Sarà il solito due infallibile, pronti a controllare i monitor. Lo fa giù lui, credendo di poter ridurre il tempo della visita.
La verità è che non sono loro. 
- Scusami... non sono riuscita ad arrivare prima...
- Non scusarti. Non credevo nemmeno che ce l'avresti fatta.
- Certo che ce l'avrei fatta... posso spostare qualche impegno 
- .. diciamo che ti perdono il ritardo solo perchè mi hai portato un regalo.
- Ho pensato che ti facessero mangiare male da queste parti a dire la verità.... non vorrei che poi tornassi a casa troppo smagrito.. e così ...vorrei farti ingrassare un po’, ecco tutto. 

Le bende sotto ai guanti, la pelle magra tirata sulle ossa. Le oscillazioni improvvise, la mancanza di forza nell’alzarsi. Porca miseria, è un miracolo se sta in piedi. 
- Per quale motivo vuoi aiutarmi?
- Non so quali persone abbiano attraversato la tua vita, ne cosa ognuno di loro ti abbia lasciato.. ciò che ho visto io, però, è il bisogno di qualcosa. Qualcosa che sfugge spesso via dai tuoi sorrisi. Io non penso tu sia mai stata abituata ad aver qualcuno disposto a prendersi cura di te. In ogni senso possibile. Non parlo solo di amore ed affetto. Mi riferisco a tutto il resto.
- .. cosa sfugge via dai miei sorrisi?
- ….
- Se vuoi che qualcuno vada a dare da mangiare ai cani... sono disponibile comunque.
- Dei cani c'è già chi se ne occupa. Ma se ti serve un posto dove stare da me ce n’è parecchio.
- No, non preoccuparti... ho la mia camera alla Shouye e soprattutto devo smetterla di accettare di trasferirmi da chiunque. Prendilo come un buon proposito per l'anno nuovo..
- .. chiunque. - ripete solo quell'unica parola, abbozzando un sorriso al buio della sera - ... come preferisci.

Guarda il comodino, dove ha poggiato la “pasticceria” che Daphne gli ha portato la sera precedente. Mezza casetta andata, molti cioccolatini spariti. Tanti orsetti senza più tesa o corpo.
Ha anche diversi fogli elettronici con alcuni enigmi, portati da Andres.
Tanti ricordi di una sola notte ammassati l’uno sull’altro.
Il sorriso di uno.
La disperazione dell’altra.
La disperazione è qualcosa che gli brucia nel petto. Ha cercato in ogni modo di strapparle un sorriso e nei suoi occhi ha solo visto tanta tristezza e solitudine. Ha provato a farle raccontare qualcosa; nelle diverse pause ha seguito solo i suoi occhi verso un cielo privo di stelle.
Poi l’ha lasciata andare, con la promessa di una partenza imminente – una fuga – sapendo che non l’avrebbe più rivista.


(Daphne)
Aveva detto di no, che sarebbe andata via senza tornare e invece eccola di nuovo fare la sua comparsa in quella stanza d'ospedale, quell'ospedale che tanto odia, che la spaventa come quel mostro che si nasconde nel buio sotto al letto mentre i bambini dormono.
Il volto arrossato, gli occhi lucidi di chi ha pianto e non è ancora pronto a smettere, l'espressione imbronciata o forse semplicemente triste. 
- Starò bene... promesso.
La voce è così flebile che quelle parole non possono che essere una bugia. Nel modo in cui abbassa gli occhi è facile intuirlo, lei che è un'attrice non ha la forza nemmeno per fingere. Tortura le dita guantate, sotto la trasparenza dei ricami quelle bende sono visibili e sotto quelle bende i tagli che lei stessa si provoca che altro non sono che sintomo di un profondo malessere interiore che supera ciò che le parole dicono.
Non si avvicina però, un passo e potrebbe cambiare idea. 
- Credo...credo sia il caso che teniate tu ed Andres, Bau. Dimentico sempre di dargli da mangiare, e poi abbaia, abbaia troppo... fatelo giocare però, ama dormire sul letto e ancora non ha capito bene come funziona la storia di chi comanda, ma va bene così. Ogni tanto cerca di mangiare la cioccolata ma credo che ai cani faccia...
Parla, straparla, un fiume di parole dettate dal nervosismo di un addio impellente. Sommerge Owen con parole inutili e vuote pur di non permettergli di soffermarsi sul vero motivo della sua presenza li.
- Andres ha ragione, non potete pensare a terzi, avete altro da fare, tu devi tornare a camminare, lui deve riprendersi del tutto e parlare con me è come battere con la testa nel muro... è così che va, ok? Preferisco stare da sola, ho anche io una casa, l'avevo dimenticato.
Una casa avvolta nei ricordi che non riesce a lasciarsi alle spalle, dove tutto è perfettamente li, dove l'unica persona che lei abbia mai amato l'ha lasciata.
- L'ha detto anche lui, sono libera di fare le mie scelte.
Mentre parla le lacrime scendono lungo il suo volto, il respiro le si spezza e non guarda mai l'uomo, lo sguardo è fisso a terra come se stesse parlando alle sue scarpe lucide firmate che probabilmente costano quanto l'intero ospedale.
  

(Owen)
Il suo lavoro è l’analisi dei rischi, vale a dire fare previsioni di ciò che è accaduto e di quello che accadrà. Niente è riuscito a prepararlo a questo.
Non al suo ritorno.
Quando vede la porta aprirsi immagina subito un dottore. L’espressione è già stanca, annoiata. Tesa. Ha in gola diverse frasi pronte per l’occorrenza: “sto bene”, “non ho granchè male”, “quando riprenderò  a camminare?”. Le solite, di rito.
Quando posa gli occhi sul viso di Daphne resta pietrificato, forse per la prima volta in vita sua.
Lei che inizia a parlare, lui che non si azzarda ad interromperla MAI.
Quasi respira a stento, sbattendo di rado le palpebre.
Quelle della Yiji sono lacrime che non può frenare. Non può muoversi per andarle incontro, non può sperare di convincerla a calmarsi. 
- Ti prego, lasciami solo… provare.

Lo sa che saranno parole inutili, sospese nello spazio che c’è tra loro. Stringe le lenzuola, scaricando il nervosismo sul tessuto leggero. Le strizza contro ai palmi e si fa del male tendendo la schiena in avanti, redarguito ben presto da una stoccata al costato. Il dolore è lancinante ed immediato, gli toglie il respiro. 
- Non deve andare per forza così, lo sai? Non sei obbligata a scappare, ne a nasconderti. Tutto ciò di cui hai bisogno è qui. Hai Andres, qui.

Parla senza sapere quanti siano i problemi sotto alla superficie. Già quello che sa lo indispone al tal punto che potendo la metterebbe sotto sorveglianza. Invece no: certi lussi non se li può permettere.
Ricorda i graffi, ogni singola escoriazione che si è provocata coscientemente. Sono ancora tutte li, torturate dalle dita.
Sono li a ricordargli la fragilità di un singolo attimo.

(Daphne)
- Io non ho nessuno qui.. io non ho più nessuno qui... è il prezzo del potere. Avevo tanti amici..ho creduto in una famiglia, ma sono andati tutti via.

Dice, la voce è triste ma sulle labbra un lieve sorriso, quasi sdrammatizza, si intravedono le sue fossette, piccole e fragili, lasciano credere che siano nate su di un volto destinato a sorridere alla vita e non a spezzarsi prima del previsto. Un tempo non era così, è facile intuirlo anche se lei lo nasconde. Una volta qualcuno la faceva ridere, una volta qualcuno l'amava, una volta qualcuno le ha promesso la luna per poi portarle via i sogni. 
- Mi sono resa conto troppo tardi che il denaro non è tutto, che forse sarei stata felice in una casa sull'albero e un abbraccio. Mi sarebbero bastati per tutta la vita.

Ma a quel sogno ha rinunciato quando le è stato chiesto di fuggire, e lei è rimasta inchiodata sul fondo di un pozzo da cui non riesce ad uscire, da cui la bambina che non è mai stata chiede aiuto mentre l'adulta la soffoca.
Owen la osserva, vorrebbe che lei lo lasciasse provare, non può, non può cedere di nuovo, e così ingoia le sue lacrime e mette insieme i cocci che rimangono della sua maschera. 
- Io devo andare... starò bene, te lo prometto ok? Starò bene.

Non attende una risposta, si allunga solo verso di lui per depositare un lieve bacio sulla sua fronte come la sera precedente, poi va via, gli sfugge dalle mani come sabbia. Daphne è andata via lasciando dietro di se il nulla dell'assenza.

Al tempio c'è una poesia intitolata  'la mancanza' incisa nella pietra. Ci sono tre parole ma il poeta le ha cancellate. Non si può leggere la mancanza, solo avvertirla.

(Owen)
- Io devo andare... starò bene, te lo prometto ok? Starò bene.

Nel momento in cui lei pronuncia quelle parole lui non ci crede.
La guarda avvicinarsi, socchiudendo gli occhi al bacio, ma appena si allontana frena la mano sulla propria gamba.
Trattenerla vorrebbe dire far partire una discussione senza precedenti.
Trattenerla vorrebbe dire “obbligarla” ad ascoltarlo. Il problema è che Owen ora non ha la forza, ne la forma fisica adatta, per fare niente di tutto questo.
Daphne gli scivola via dalle dita con leggerezza, come uno sbuffo d’aria tiepido. Si lascia dietro una porta chiusa e l’immagine di un viso pieno di lacrime.
L’attimo dopo cerca il pad tra i fogli elettronici, spargendoli ovunque. Scorre la rubrica rapidamente, fermandosi su un nome: Andres.
Passa oltre: lo chiamerà dopo.
Prima ha un’altra persona da contattare.
Tre squilli, poi la risposta.
 - Regy, ho bisogno di un favore..

Una frase che implica una gravità quasi tangibile.
Sarà un favore, uno di quelli tra criminali. 

domenica 14 settembre 2014

Breakdown


Yindù,
Appartamento, 76° piano.

(six years ago)

La casa è accogliente, più delle precedenti – e più di quello cui Owen è abituato -, al centro esatto di Yindù. Il tocco di una donna si vede in ogni dettaglio, dai colori sgargianti delle tende e dei soprammobili fino ad una punta floreale del profumo che può annusarsi in ogni corridoio e stanza.
Lui e Katrine ci vivono da un anno. I presupposti per un futuro assieme, una bella famiglia ed un matrimonio, sembrano esserci. Quantomeno lo credono entrambi. Lei lavora per l’Alleanza, Tenente da poco e figlia di un Comandante. Non è mai stato facile, eppure hanno imparato ad adattarsi ed incastrare gli orari per ritrovarsi la sera assieme, magari a guardare uno di quegli spettacoli pieni di azione sull’holotv.
Una routine sopportabile.
Owen lavora per alcuni privati, raccomandati dai genitori o da amici di amici. E’ molto impegnato su più fronti, appassionato ma non pienamente soddisfatto. Riceve l’offerta di una collaborazione con la Flotta una settimana più tardi, una chiamata che arriva direttamente dal Comandante. 
- Dunham, giusto?
- Dunham, Signore. Esatto.
- Mia figlia mi ha detto che è un libero professionista, che si occupa di consulenze.
- Esatto, Signore. Rientro nella categoria generalmente definita come “investigatore privato”. – ci mette un pizzico di ironia, un sorriso che il Comandante non può vedere al telefono ma che si sente dalla leggerezza della voce.
- Bene, bene. Può raggiungermi in ufficio domattina, 7.00 in punto?
- Non è un problema, Signore. Domani, 7.00 in punto.

Inutile dire che è elettrizzato. Un lavoro importante, interessante. Un potenziale trampolino di lancio per un cambiamento, sia nella carriera che su un piano nettamente più personale.
La notte la passa insonne, troppo agitato dalle svariate possibilità cui da vita in silenzio, al buio. Katrine li accanto dorme, ogni tanto si gira e gli sfiora le gambe con i piedi gelati.
Alle 5.00 si è già fatto la doccia, passando l’ora seguente davanti all’armadio per scegliere il completo migliore.
Si presenta nell’ufficio del Comandante Molder come un Man in Black. Nero e bianco, impeccabile, con la cravatta sottile appuntata da un fermaglio di argento, pregiato. Non guarda nemmeno la stanza attorno a sé, va dritto a sedersi di fronte alla scrivania. Per la prima volta è agitato, non riesce a stare fermo. 
- Laureato in Scienze Strategiche, master in Profiling e Criminologia..
- Si, Signore. Ho collaborato con degli avvocati, come consulente nei processi, e mi sono occupato di gestione dei rischi per diversi privati facoltosi.
- Si è mai occupato di interrogatori, Dunham?
- Signore.. è un colloquio di lavoro? – lo domanda con un sorriso un po’ cauto, teso.
- Risponda alla domanda, per favore.
- Si e no. Mi è capitato di preparare dei testimoni per conto di uno Studio o di valutarne altri in sede di processo. Non ho mai condotto interrogatori per fini militari, se è questo che intende.
- Se ho chiesto di lei è perché mi fido del giudizio di mia… figlia. Confido anche che di questo, con lei, non ne parlerà.
- … signore? – decisamente confuso. L’agitazione è scivolata via, resta solo un’immensa incertezza.
- Ci servono delle informazioni. Abbiamo catturato un noto pregiudicato, attualmente detenuto nelle nostre celle. Non parla.. e da queste parti gli esperti in materia scarseggiano. Non abbiamo tempo di farne arrivare uno da fuori, perciò sto chiedendo a lei di occuparsene.
- Avrò accesso ad informazioni classificate? – chissà perché la prospettiva lo alletta, tirandogli un sorriso.
- No.
- .. va bene. Come riuscirò a farlo il lavoro senza sapere cosa cercare?
- Firmi questo, Dunham. – gli porge un foglio, un modulo a dire il vero. Un modulo di arruolamento.
- …allora era davvero un colloquio di lavoro. – e no: non sembra felice.

Esita, con la penna a due centimetri dal foglio. Guarda l’uomo seduto li di fronte, l’espressione accigliata e pensierosa. Due secondi dopo mette il suo “autografo” e porge il documento di nuovo al Comandante.
- Benvenuto a bordo, Dunham. Ora avrà accesso alle informazioni classificate. – con un sorriso che di amichevole non ha niente.

Sembra, invece, un grosso gatto trionfante che si è appena mangiato un succulento topo.

Nel giro di tre mesi cambia tutto.
Minima frequentazione della casa, con sempre più notti passate a dormire in Base. I suoi sono orari assurdi, prevalentemente notturni. Di colleghi ne incontra pochi, come se le alte sfere gli volesse impedire di fare amicizia. Un giorno controlla la propria scheda, solo per curiosità. Nel database non trova niente.
Owen Dunham è un fantasma, non esiste. Non si è mai arruolato.
Quando chiede spiegazioni scopre che è tutto top secret, che nessuno a parte i capi devono sapere niente di ciò che fa. Il perché si scopre nel tempo, per la portata di ogni singolo incarico. Per la brutalità di quanto gli viene chiesto e per la semplicità che ha lui nell’eseguire.

E’ un Lunedì sera quando, terminato l’ultimo interrogatorio prima del previsto, torna a casa. Apre la porta e c’è solo silenzio. 
- Katrine?

La chiama in ogni stanza. La cerca ovunque. La trova in bagno, seduta in terra: il volto rigato di lacrime. Getta le borse in terra, lancia la giacca lontano e si accovaccia accanto a lei con in viso un’espressione allarmata. 
- Cosa è successo? Ti senti male? Katrine, guardarmi. Parlarmi.

La esorta con voce bassa, tesa. Con una mano la sfiora, con l’altra cerca il pad. Lei si scosta bruscamente, schifata. Owen non capisce. Si blocca con il respiro in gola, guardandola inginocchiato. Vorrebbe farle così tante domande che nemmeno una gli raggiunge la bocca. Restano tutte inchiodate sulla lingua. 
- Così alla fine hai accettato. – ha in viso un sorriso amaro, negli occhi un evidente rifiuto.
- .. cosa, tesoro? – lo chiede nonostante abbia capito tutto in un baleno. Ha la forza di sorriderle in maniera sottile, paralizzato.
- .. non chiamarmi tesoro! Non mi toccare, allontanati! – grida, e grida ancora. Piange, e piange ancora. Gattona sul pavimento, occupando l’angolo più remoto della stanza. Osserva Owen dietro un velo di capelli chiari, sottili fili d’oro.
- Katrine, non so di cosa tu stia parlando…
- Maledetto bastardo!
- Adesso piantala, ok?! Si può sapere cosa ti prende, dannazione?!
- .. cosa MI prende? Credi che io non sappia cosa fai?
- .. ma cosa faccio quando? Dove? O parli chiaramente o ti lascio qui, lo giuro.
- Perché, fino ad ora ci sei mai stato? – è così brutale, nel domandarglielo con vischiosa e falsa dolcezza che Owen resta impalato, sopraffatto dai sensi di colpa.
- Senti, Kat.. non so cosa ti prenda. Se è colpa degli ormoni, se hai bevuto, se ti hanno fatto girare i coglioni al lavoro. Io non starò qui a farmi insultare da te senza un motivo.
- .. sei tu quello di cui parlano, vero? Quello che lavora ai piani inferiori.

Una consapevolezza che lo investe come un camion. Raddrizza le spalle e si alza lentamente, aggrappandosi allo stipite della porta. 
- Tuo padre mi aveva assicurato…
- .. si, lo so cosa ti aveva assicurato. Ma sono sua figlia ed ho ancora un certo ascendente su di lui. Non mi ci è voluto molto per fargli sputare la verità. Quella che tu non mi hai mai detto.
- Cosa avrei dovuto dirti, mn? Ho dei superiori, ho degli ordini ed ho un lavoro da fare. E lo faccio, porta puttana!
- Sono anche io un tuo superiore, Dunham!
- No, non lo sei. Non hai il grado sufficientemente alto per questo!
- Oh, ma vaffanculo.
- Chiedilo al Comandante, vedi cosa ti risponde. Se hai dovuto fargli pressioni da figlia per sapere le cose allora sai anche che diversamente non avresti scoperto un cacchio!
- Quanto mi fai schifo, Owen.
- Fottiti, Katrine.

La fine arriva con una porta che si chiude, sbattendo. Oltre a tanto, troppo, silenzio.


Skyplex Hall Point
Owen’s Room

(two hours earlier)
- Chiedi, se vuoi sapere.

Andres è in piedi di fronte a loro. Poi si volta verso Owen. Gli occhi si spostano su di lui con un brivido fondo, il cuore gli sobbalza nel petto. Le labbra si schiudono, lo fissa con una gravità liquida negli occhi chiari, spalancati. Deglutisce. Chiedi, se vuoi sapere. Lui scuote la testa, ma ci mette molto. La scuote sulle prime piano, poi con più decisione.
- No. Non voglio chiedere. Non voglio essere parte di.. questa cosa. You both.. - sussurra. Gli occhi cercano Elian. - ...You both..? ...No.
Anche Lee sposta lo sguardo su Owen, aggrotta le sopracciglia, gli spinge addosso un disappunto vivo, bruciante. Parla piano, soffiando tra i denti parole che assumono quasi il suono di un sibilo. Ha tutti i muscoli tesi ed è finita seduta in punta alla sedia, non più rilassata su di essa, come se qualcosa l'avesse visibilmente agitata. Avvolge una mano attorno allo schienale della sedia, mentre poggia l'altra sul tavolo, a palmo aperto, premuto. Alterna lo sguardo tra i due febbrilmente, fermandosi su Andres quando lui pone implicitamente la seguente domanda. Both? Inspira a fondo, ma il respiro è più breve, ritmato. Quello di una persona lanciata verso l'orlo di un burrone a cui rimangono pochi istanti di lucidità per frenare. Parla ancora, il tono di voce stavolta è fermo, mantenuto assolutamente calmo, assertivo.
In quel momento Owen li guarda entrambi ed affonda, sempre più velocemente. In Andres vede lo stesso sguardo che sei anni prima gli ha rivolto Kat. La stessa rabbia in Elian.
Annaspa. Ha paura.  
Si alza, senza rimettere la sedia a posto.
Si sofferma su un punto non ben precisato vicino all’angolo del tavolo.
Riesce a dire solo due parole: Mi dispiace. a beneficio di entrambi, un po' per tutto. Per la brutalità di ogni parola, per essere uno schifo di persona che con non ci sa fare con i rapporti umani. Per il modo in cui sta fuggendo.

Si risveglia di soprassalto, colpendo una bottiglia vuota di vetro che va a sbattere contro la gamba del letto, tintinnando. E’ sdraiato in terra, le ultime parole del messaggio di Lee che gli infiammano gli occhi: Non ubriacarti per favore.
Ride, tossisce e si trascina verso il bagno, in tempo per cadere sul water e vomitare l’anima – assieme all’alcool.

Uno degli ultimi pensieri, prima di perdere di nuovo i sensi.

sabato 6 settembre 2014

Will you kill for me?

Horyzon, Capital City
Appartamento, 35° piano.

Sono giorni, e giorni, che lavora. Incessantemente, da lasciare lo stomaco vuoto ed il sonno alle spalle. Negli occhi brucia una determinazione febbrile, malata, che lo spinge a proseguire oltre il limite umano, raschiando il fondo. Ha il viso stanco, i vestiti sfatti. Nonostante questo siede al tavolo della cucina con le mani tra i capelli e la testa bassa sulla marea di fogli elettronici che ha sparso ovunque, fitti di appunti ed annotazioni utili al caso. E’ da poco che ha riaccompagnato Andres a casa di Lee e Gray; nel rientrare non si è nemmeno cambiato, ha solo abbandonato la giacca – senza grazia – sullo schienale della poltrona all’ingresso. La cravatta agganciata da qualche parte, la camicia appallottolata sulla sedia accanto alla propria. Sta cercando qualcosa, la classica “luce al fondo del tunnel”.
Non è mai stato così, mai. Non ci ha mai messo la medesima passione che ci sta mettendo ora, avvelenandosi il sangue. I flash, che gli fanno rivedere le condizioni dello Yiji, fanno stringere i denti e mancare il respiro. L’ha visto crollare e cedere, ha sentito sulla pelle la sua paura di aver sbagliato. Il pugno contro al tavolo cala un istante dopo, spostando una pila di documenti maniacalmente impilati e spandendo nel silenzio un suono sordo, secco. 
“Fuck”.

Lo ripete una, due, tre volte, aggirandosi come un animale in gabbia. 
“Pensa. Pensa. Pensa”.

Si tortura i capelli, stringe le braccia, scarica la tensione sui muscoli tesi: niente da fare, non si calma. Raccatta il pad, lasciato su un mobile basso, con un gesto brusco e rabbioso. Se Lucas non fosse sparito ora chiamerebbe lui per farsi prescrivere qualcosa, quantomeno per dormire. Invece il Medico non c’è. Non c’è nemmeno Megan in casa. Non c’è nessuno, a parte Staunch – il cane – che si muove irrequieto attorno a lui. Persino l’animale può sentire la pesantezza dello stato d’animo del padrone. Uggiola, ma Owen non lo guarda. Scorre la rubrica rapidamente, mordendosi le labbra fino a graffiarsele con i denti. 
“ Regy… Regy… dove cazzo è il contatto di Regy..”

Ufficialmente? Uno spacciatore. Uno dei bravi, si intende, che sintetizza la roba migliore. Ma lui non vuole della droga, gli annebbierebbe i senti. Owen vuole solo dormire. 
- Chi è..? Chi.. pronto?
- Regy! – una voce che esplode, piena di sollievo nervoso
- Chi… Oh oh, ‘Worth!
- Non volevo svegliarti, scusa Regy.. – non è da Owen scusarsi, non con Regy.
- Ehi amico, che… è morto qualcuno? – ironia spicciola che trasuda, stranamente, un pizzico di allarme.
- Hai qualcosa a portata da darmi?
- Qualcosa per….?
- Non mi serve niente di forte, non medito un’overdose. Non voglio nemmeno sballarmi Qualcosa che mi calmi i nervi, Regy.  Devo dormire. – non dice “vorrei”, “mi piacerebbe”: DEVO dormire.
- Dammi mezz’ora, ti scrivo l’indirizzo.

Mette giù la chiamata senza salutare: con Regy non ce n’è bisogno. Si riveste con la stessa camicia stropicciata, stavolta senza la cravatta. Prende le chiavi ed esce di casa, stavolta senza portarsi dietro Staunch. Sarà una toccata e fuga.


Capital City, Sobborghi
Red Lotus, Bagno delle Donne

Sono passati una notte ed un giorno. All’appuntamento con Lee ci arriva puntuale, chiuso in un involucro di pelle sintetica che lo f sembrare un vero macho. Ha cambiato persino il colore dei capelli: s’è fatto scuro, più castano e meno biondo.
Oltrepassa l’ingresso del Red Lotus guardandosi poco attorno, ancora meno le cameriere che gli rivolgono sguardi annoiati e stanchi. Tsk, immagine riflessa eh?
Va dritto verso il bagno delle donne, spalancandone la porta per trovare Lee appoggiata al lavandino.
Non ci vuole molto, in effetti, per farli esplodere entrambi. Covano una rabbia particolarmente intensa che spinta l’una contro l’altro fa scintille. L’aria crepita mentre si urlano addosso, coperti dal suono del phon costantemente acceso per coprire i segreti che condividono. 
“Io non voglio uccidere nessuno.”
Lee lo dice con un tale timore stretto tra i denti che fa male persin sentirla parlare.
La voce esplode nel piccolo bagno, rimbalzando contro alle pareti. No, non è una condizione accettabile. Non è una cosa che la sua coscienza potrebbe trattenere… o forse si? 
I sottintesi sono tantissimi. Si guardano e capiscono che lui ha ragione. Che entrambi ce l’hanno. Sembrano pronti a non aggiungere altro, ed invece.. 
Qualcosa, di quello che vede in lei, gli fa male al petto. L’idea che lei possa arrivare a pensare di chiedergli una cosa del genere – che lui farebbe senza pensarci, consapevole dell’importanza della causa – sgretola moltissime certezze. Il bisogno di chiuderla in un bozzolo spesso ed indistruttibile si fa immediata, nonostante questo reagisce in maniera istintiva piuttosto che ragionata. La osserva, respirando il profumo della sua pelle. La supplica di tenere gelosamente la brillantezza che ancora le schiarisce lo sguardo. Di non oltrepassare alcuna linea, di mantenere intatta la lucentezza – dall’anima. Una preghiera, ancora ed ancora.
Una preghiera che ripeterà nel buio quando la sentirà addormentata contro di sé, fissando il soffitto alla ricerca di una risposta.
O, più che altro, di una speranza.