Yindù,
Appartamento, 76° piano.
(six years ago)
La casa è
accogliente, più delle precedenti – e più di quello cui Owen è abituato -, al
centro esatto di Yindù. Il tocco di una donna si vede in ogni dettaglio, dai
colori sgargianti delle tende e dei soprammobili fino ad una punta floreale del
profumo che può annusarsi in ogni corridoio e stanza.
Lui e
Katrine ci vivono da un anno. I presupposti per un futuro assieme, una bella
famiglia ed un matrimonio, sembrano esserci. Quantomeno lo credono entrambi.
Lei lavora per l’Alleanza, Tenente da poco e figlia di un Comandante. Non è mai
stato facile, eppure hanno imparato ad adattarsi ed incastrare gli orari per
ritrovarsi la sera assieme, magari a guardare uno di quegli spettacoli pieni di
azione sull’holotv.
Una routine
sopportabile.
Owen lavora
per alcuni privati, raccomandati dai genitori o da amici di amici. E’ molto
impegnato su più fronti, appassionato ma non pienamente soddisfatto. Riceve l’offerta
di una collaborazione con la Flotta una settimana più tardi, una chiamata che
arriva direttamente dal Comandante.
- Dunham, giusto?
- Dunham, Signore. Esatto.
- Mia figlia mi ha detto che è un libero professionista, che si occupa di consulenze.
- Esatto, Signore. Rientro nella categoria generalmente definita come “investigatore privato”. – ci mette un pizzico di ironia, un sorriso che il Comandante non può vedere al telefono ma che si sente dalla leggerezza della voce.
- Bene, bene. Può raggiungermi in ufficio domattina, 7.00 in punto?
- Non è un problema, Signore. Domani, 7.00 in punto.
Inutile dire
che è elettrizzato. Un lavoro importante, interessante. Un potenziale
trampolino di lancio per un cambiamento, sia nella carriera che su un piano
nettamente più personale.
La notte la
passa insonne, troppo agitato dalle svariate possibilità cui da vita in
silenzio, al buio. Katrine li accanto dorme, ogni tanto si gira e gli sfiora le
gambe con i piedi gelati.
Alle 5.00 si
è già fatto la doccia, passando l’ora seguente davanti all’armadio per
scegliere il completo migliore.
Si presenta
nell’ufficio del Comandante Molder come un Man in Black. Nero e bianco,
impeccabile, con la cravatta sottile appuntata da un fermaglio di argento,
pregiato. Non guarda nemmeno la stanza attorno a sé, va dritto a sedersi di
fronte alla scrivania. Per la prima volta è agitato, non riesce a stare fermo.
- Laureato in Scienze Strategiche, master in Profiling e Criminologia..
- Si, Signore. Ho collaborato con degli avvocati, come consulente nei processi, e mi sono occupato di gestione dei rischi per diversi privati facoltosi.
- Si è mai occupato di interrogatori, Dunham?
- Signore.. è un colloquio di lavoro? – lo domanda con un sorriso un po’ cauto, teso.
- Risponda alla domanda, per favore.
- Si e no. Mi è capitato di preparare dei testimoni per conto di uno Studio o di valutarne altri in sede di processo. Non ho mai condotto interrogatori per fini militari, se è questo che intende.
- Se ho chiesto di lei è perché mi fido del giudizio di mia… figlia. Confido anche che di questo, con lei, non ne parlerà.
- … signore? – decisamente confuso. L’agitazione è scivolata via, resta solo un’immensa incertezza.
- Ci servono delle informazioni. Abbiamo catturato un noto pregiudicato, attualmente detenuto nelle nostre celle. Non parla.. e da queste parti gli esperti in materia scarseggiano. Non abbiamo tempo di farne arrivare uno da fuori, perciò sto chiedendo a lei di occuparsene.
- Avrò accesso ad informazioni classificate? – chissà perché la prospettiva lo alletta, tirandogli un sorriso.
- No.
- .. va bene. Come riuscirò a farlo il lavoro senza sapere cosa cercare?
- Firmi questo, Dunham. – gli porge un foglio, un modulo a dire il vero. Un modulo di arruolamento.
- …allora era davvero un colloquio di lavoro. – e no: non sembra felice.
Esita, con
la penna a due centimetri dal foglio. Guarda l’uomo seduto li di fronte, l’espressione
accigliata e pensierosa. Due secondi dopo mette il suo “autografo” e porge il
documento di nuovo al Comandante.
- Benvenuto a bordo, Dunham. Ora avrà accesso alle informazioni classificate. – con un sorriso che di amichevole non ha niente.
Sembra,
invece, un grosso gatto trionfante che si è appena mangiato un succulento topo.
Nel giro di
tre mesi cambia tutto.
Minima
frequentazione della casa, con sempre più notti passate a dormire in Base. I
suoi sono orari assurdi, prevalentemente notturni. Di colleghi ne incontra
pochi, come se le alte sfere gli volesse impedire di fare amicizia. Un giorno
controlla la propria scheda, solo per curiosità. Nel database non trova niente.
Owen Dunham
è un fantasma, non esiste. Non si è mai arruolato.
Quando
chiede spiegazioni scopre che è tutto top secret, che nessuno a parte i capi
devono sapere niente di ciò che fa. Il perché si scopre nel tempo, per la
portata di ogni singolo incarico. Per la brutalità di quanto gli viene chiesto
e per la semplicità che ha lui nell’eseguire.
E’ un Lunedì
sera quando, terminato l’ultimo interrogatorio prima del previsto, torna a
casa. Apre la porta e c’è solo silenzio.
- Katrine?
La chiama in
ogni stanza. La cerca ovunque. La trova in bagno, seduta in terra: il volto
rigato di lacrime. Getta le borse in terra, lancia la giacca lontano e si
accovaccia accanto a lei con in viso un’espressione allarmata.
- Cosa è successo? Ti senti male? Katrine, guardarmi. Parlarmi.
La esorta
con voce bassa, tesa. Con una mano la sfiora, con l’altra cerca il pad. Lei si
scosta bruscamente, schifata. Owen non capisce. Si blocca con il respiro in
gola, guardandola inginocchiato. Vorrebbe farle così tante domande che nemmeno
una gli raggiunge la bocca. Restano tutte inchiodate sulla lingua.
- Così alla fine hai accettato. – ha in viso un sorriso amaro, negli occhi un evidente rifiuto.
- .. cosa, tesoro? – lo chiede nonostante abbia capito tutto in un baleno. Ha la forza di sorriderle in maniera sottile, paralizzato.
- .. non chiamarmi tesoro! Non mi toccare, allontanati! – grida, e grida ancora. Piange, e piange ancora. Gattona sul pavimento, occupando l’angolo più remoto della stanza. Osserva Owen dietro un velo di capelli chiari, sottili fili d’oro.
- Katrine, non so di cosa tu stia parlando…
- Maledetto bastardo!
- Adesso piantala, ok?! Si può sapere cosa ti prende, dannazione?!
- .. cosa MI prende? Credi che io non sappia cosa fai?
- .. ma cosa faccio quando? Dove? O parli chiaramente o ti lascio qui, lo giuro.
- Perché, fino ad ora ci sei mai stato? – è così brutale, nel domandarglielo con vischiosa e falsa dolcezza che Owen resta impalato, sopraffatto dai sensi di colpa.
- Senti, Kat.. non so cosa ti prenda. Se è colpa degli ormoni, se hai bevuto, se ti hanno fatto girare i coglioni al lavoro. Io non starò qui a farmi insultare da te senza un motivo.
- .. sei tu quello di cui parlano, vero? Quello che lavora ai piani inferiori.
Una
consapevolezza che lo investe come un camion. Raddrizza le spalle e si alza
lentamente, aggrappandosi allo stipite della porta.
- Tuo padre mi aveva assicurato…
- .. si, lo so cosa ti aveva assicurato. Ma sono sua figlia ed ho ancora un certo ascendente su di lui. Non mi ci è voluto molto per fargli sputare la verità. Quella che tu non mi hai mai detto.
- Cosa avrei dovuto dirti, mn? Ho dei superiori, ho degli ordini ed ho un lavoro da fare. E lo faccio, porta puttana!
- Sono anche io un tuo superiore, Dunham!
- No, non lo sei. Non hai il grado sufficientemente alto per questo!
- Oh, ma vaffanculo.
- Chiedilo al Comandante, vedi cosa ti risponde. Se hai dovuto fargli pressioni da figlia per sapere le cose allora sai anche che diversamente non avresti scoperto un cacchio!
- Quanto mi fai schifo, Owen.
- Fottiti, Katrine.
La fine
arriva con una porta che si chiude, sbattendo. Oltre a tanto, troppo, silenzio.
Skyplex Hall Point
Owen’s Room
(two hours earlier)
- Chiedi, se vuoi sapere.
Andres è in piedi di fronte a loro. Poi si volta verso
Owen. Gli occhi si spostano su di lui con un brivido
fondo, il cuore gli sobbalza nel petto. Le labbra si schiudono, lo fissa con
una gravità liquida negli occhi chiari, spalancati. Deglutisce. Chiedi, se vuoi sapere. Lui scuote la
testa, ma ci mette molto. La scuote sulle prime piano, poi con più decisione.
- No. Non voglio chiedere. Non voglio essere parte di.. questa cosa. You both.. - sussurra. Gli occhi cercano Elian. - ...You both..? ...No.
Anche Lee sposta lo sguardo su Owen,
aggrotta le sopracciglia, gli spinge addosso un disappunto vivo, bruciante. Parla
piano, soffiando tra i denti parole che assumono quasi il suono di un sibilo.
Ha tutti i muscoli tesi ed è finita seduta in punta alla sedia, non più
rilassata su di essa, come se qualcosa l'avesse visibilmente agitata. Avvolge
una mano attorno allo schienale della sedia, mentre poggia l'altra sul tavolo,
a palmo aperto, premuto. Alterna lo sguardo tra i due febbrilmente, fermandosi
su Andres quando lui pone implicitamente la seguente domanda. Both? Inspira a
fondo, ma il respiro è più breve, ritmato. Quello di una persona lanciata verso
l'orlo di un burrone a cui rimangono pochi istanti di lucidità per frenare. Parla
ancora, il tono di voce stavolta è fermo, mantenuto assolutamente calmo,
assertivo.
In quel
momento Owen li guarda entrambi ed affonda, sempre più velocemente. In Andres
vede lo stesso sguardo che sei anni prima gli ha rivolto Kat. La stessa rabbia
in Elian.
Annaspa. Ha
paura.
Si alza, senza rimettere la sedia a
posto.
Si sofferma su un punto non ben precisato
vicino all’angolo del tavolo.
Riesce a dire solo due parole: “Mi
dispiace.” a beneficio di entrambi, un
po' per tutto. Per la brutalità di ogni parola, per essere uno schifo di
persona che con non ci sa fare con i rapporti umani. Per il modo in cui sta
fuggendo.
Si
risveglia di soprassalto, colpendo una bottiglia vuota di vetro che va a
sbattere contro la gamba del letto, tintinnando. E’ sdraiato in terra, le
ultime parole del messaggio di Lee che gli infiammano gli occhi: Non ubriacarti
per favore.
Ride,
tossisce e si trascina verso il bagno, in tempo per cadere sul water e vomitare
l’anima – assieme all’alcool.
Uno degli
ultimi pensieri, prima di perdere di nuovo i sensi.