sabato 2 agosto 2014

Shall we dance?

Horyzon, Capital City
Appartamento, 35° piano.


Owen non è uno che mette radici. Va dove lo porta il lavoro, dove può trovare una missione. Dove può sfogarsi. Quello è il vero fardello che si porta appresso: lo scempio che si è lasciato dietro negli anni e che non gli fa provare alcun rimorso o vergogna. Quello che scruta tutte le mattine allo specchio è un rifletto pericoloso: pur lasciando intravedere un sorriso sottolinea anche l'ombrosità degli occhi. E' uno sguardo determinato, fermo. Fisso e critico. Tanti l'hanno evitato, altri ancora l'hanno biasimato per molte cose. Lui si è sempre piaciuto.. e questo non è mai stato un bene.

L'appartamento che ha scelto a Capital City sa di fresco, di nuovo. Ha un arredamento minimal, principalmente bianco e nero, e pochi oggetti sparsi qui e li con grande stile ma poca personalità.. E' la tana di un uomo, si vede chiaramente che manca quel tocco femminile utile a rendere l'ambiente vivibile - e non triste come una camera di ospedale. C'è tutto e non c'è niente. Nessuna foto di amici e parenti, solo panorami classici appesi alle pareti per dare una breve nota di colore la dove manca. Sa più di rifugio, non di casa; una zona di passaggio, nella quale non lasciare traccia. Questione di abitudine, probabilmente. Il letto è spazioso, l'unico vezzo che s'è concesso. Lenzuola leggere, scure, tra le quali si rigira dall'alba. E' rientrato terribilmente tardi, sudato e stanco come se avesse corso una maratona. La notte di balli frenetici con Lee gli ha lasciato addosso il dolore dell'età che avanza – ma, in egual misura, la soddisfazione di un ragazzino che ha visto la propria libertà infinita, immensa. Guarda l'orario proiettato sul soffitto: 9,30 del mattino.
Tardi, terribilmente tardi.
Il pad lo trova sul comodino con una manata che rischia persino di farlo cadere, tirandoselo addosso in un gesto assonnato e stanco. Apre e chiude gli occhi un paio di volte, mettendo a fuoco il menù digitale troppo vivace per il buio cui è abituato; da persin fastidio.
Il primo nome che salta su dalla rubrica, tra i contatti veloci, è quello di Lucas. Medita su cosa scrivere e riduce tutto ad un: “arrivo in ritardo”.... ma va?
Arranca giù dal letto tra mugugni e sospiri, sedendosi lentamente e con le mani già schiacciate contro le guance.
Cose da fare:
- riuscire ad alzarsi
- doccia
- barba
- mangiare
… e non necessariamente in questo ordine.
Il primo passo è un trascinamento cauto oltre il tappeto, tanto per non inciampare. Si allontana giusto un metro prima di sentire il pad suonare. Lo fissa con un'occhiata truce, nella speranza di vederlo teletrasportarsi fino al palmo della propria mano. Cosa che non accade, in ogni caso, e che lo costringe a tornare sui propri passi per raccattarlo tra le coperte gettate disordinatamente. Schiaccia a caso i bottoni, non guarda nemmeno chi è: da per scontato sia Lucas con una osservazione delle sue.
- Cosa... che c'è? Ti ho detto che sono in ritardo.
- … mister Dunham?
La voce non è familiare, l'accento però si: casa. Il contatto non è nella rubrica, cosa ancora più strana. Il momento di silenzio si tronca quando, esaurite le scuse, schiarisce la voce per parlare.
- Mister Dunham? 
- Sono qui, sono qui.. Salve. Con chi ho il piacere?
- Il mio nome non è importante. La contatto per...
- Il suo nome E' importante se mi rompe i coglioni alle nove e mezza del mattino.
Dall'altra parte silenzio. Owen accarezza violentemente la tentazione di mettere giù senza chiedere altro. E' irritabile, anche a quest'ora.
- Mi chiamo Leroy Stone. Mi hanno detto di contattare lei per un certo lavoro. 
- … che lavoro? Ma, soprattutto: chi glielo ha detto.
- Ho amicizie altolocate, persone che lei sa benissimo preferirebbero restare anonime.
- Si, come il sottoscritto.. cosa non possibile, a quanto pare.
- Hanno preso mia figlia.
- Non è me che deve contattare per queste cose. Chieda alla Flotta: sequestri e varie sono di loro competenza. Vada dal Tenente Folham, lui se ne potrà occupare.
- .. abbiamo in custodia uno di loro.
- Uno di chi?
- Uno dei responsabili. Non vuole parlare. Non vuole parlare con nessuno.
- Cosa le fa credere che lo farà con uno come me?
- Mi hanno assicurato che sarebbe stato così.
- Le hanno assicurato male.
- Io credo di no.
Owen si guarda allo specchio. Ha il volto sfatto per la serata goliardica, un velo di occhiaie scure che appesantisce la tonalità dorata del viso. Ed è incazzato. Il nervoso brucia negli occhi, nelle pupille dilatate e nel fremito delle ciglia. Si tiene al mobile, teso in avanti. Inspira, espira.
- Non ho tempo e modo di venire fino li. Dovrà raggiungermi lei.
- Non è un problema. Mi dica solo dove.
- Glielo farò sapere a tempo debito. Per il momento si preoccupi solo di organizzare la partenza  ed il trasporto del “pacco”.
Si morde il labbro: è preoccupato. Lo è spesso, in casi come questi. Sta per mettere giù, senza aggiungere altro, quando dall'altra parte Stone si schiarisce la voce.
- ...cosa c'è ancora?
- Grazie.
- Ora non è il momento. Ne riparleremo più avanti.
Tronca la comunicazione di colpo, senza dargli tempo di aggiungere altro. Si sporge dalla porta del bagno il tempo di gettare il pad sul letto, sfilandosi la maglietta per andare a farsi una doccia. Ci sta già rimuginando su, lo fa sempre. Ogni lavoro diventa un tarlo che rode e corrode il cervello. Questo non è diverso dagli altri.

E' sempre così, è una maledizione.