Horyzon, Capital City
Appartamento, 35° piano.
Owen non è uno che mette radici. Va
dove lo porta il lavoro, dove può trovare una missione. Dove può
sfogarsi. Quello è il vero fardello che si porta appresso: lo
scempio che si è lasciato dietro negli anni e che non gli fa provare
alcun rimorso o vergogna. Quello che scruta tutte le mattine allo
specchio è un rifletto pericoloso: pur lasciando intravedere un
sorriso sottolinea anche l'ombrosità degli occhi. E' uno sguardo
determinato, fermo. Fisso e critico. Tanti l'hanno evitato, altri
ancora l'hanno biasimato per molte cose. Lui si è sempre piaciuto..
e questo non è mai stato un bene.
L'appartamento che ha scelto a Capital
City sa di fresco, di nuovo. Ha un arredamento minimal,
principalmente bianco e nero, e pochi oggetti sparsi qui e li con
grande stile ma poca personalità.. E' la tana di un uomo, si vede
chiaramente che manca quel tocco femminile utile a rendere l'ambiente
vivibile - e non triste come una camera di ospedale. C'è tutto e non
c'è niente. Nessuna foto di amici e parenti, solo panorami classici
appesi alle pareti per dare una breve nota di colore la dove manca.
Sa più di rifugio, non di casa; una zona di passaggio, nella quale
non lasciare traccia. Questione di abitudine, probabilmente. Il letto
è spazioso, l'unico vezzo che s'è concesso. Lenzuola leggere,
scure, tra le quali si rigira dall'alba. E' rientrato terribilmente
tardi, sudato e stanco come se avesse corso una maratona. La notte di
balli frenetici con Lee gli ha lasciato addosso il dolore dell'età
che avanza – ma, in egual misura, la soddisfazione di un ragazzino
che ha visto la propria libertà infinita, immensa. Guarda l'orario
proiettato sul soffitto: 9,30 del mattino.
Tardi, terribilmente tardi.
Il pad lo trova sul comodino con una
manata che rischia persino di farlo cadere, tirandoselo addosso in
un gesto assonnato e stanco. Apre e chiude gli occhi un paio di
volte, mettendo a fuoco il menù digitale troppo vivace per il buio
cui è abituato; da persin fastidio.
Il primo nome che salta su dalla
rubrica, tra i contatti veloci, è quello di Lucas. Medita su cosa
scrivere e riduce tutto ad un: “arrivo in ritardo”.... ma va?
Arranca giù dal letto tra mugugni e
sospiri, sedendosi lentamente e con le mani già schiacciate contro
le guance.
Cose da fare:
- riuscire ad alzarsi
- doccia
- barba
- mangiare
- riuscire ad alzarsi
- doccia
- barba
- mangiare
… e non necessariamente in questo
ordine.
Il primo passo è un trascinamento
cauto oltre il tappeto, tanto per non inciampare. Si allontana giusto
un metro prima di sentire il pad suonare. Lo fissa con un'occhiata
truce, nella speranza di vederlo teletrasportarsi fino al palmo della
propria mano. Cosa che non accade, in ogni caso, e che lo costringe a
tornare sui propri passi per raccattarlo tra le coperte gettate
disordinatamente. Schiaccia a caso i bottoni, non guarda nemmeno chi
è: da per scontato sia Lucas con una osservazione delle sue.
- Cosa... che c'è? Ti ho detto che sono in ritardo.
- … mister Dunham?
La voce non è familiare, l'accento
però si: casa. Il contatto non è nella rubrica, cosa ancora più
strana. Il momento di silenzio si tronca quando, esaurite le scuse,
schiarisce la voce per parlare.
- Mister Dunham?
- Sono qui, sono qui.. Salve. Con chi ho il piacere?
- Il mio nome non è importante. La contatto per...
- Il suo nome E' importante se mi rompe i coglioni alle nove e mezza del mattino.
Dall'altra parte silenzio. Owen
accarezza violentemente la tentazione di mettere giù senza chiedere
altro. E' irritabile, anche a quest'ora.
- Mi chiamo Leroy Stone. Mi hanno detto di contattare lei per un certo lavoro.
- … che lavoro? Ma, soprattutto: chi glielo ha detto.
- Ho amicizie altolocate, persone che lei sa benissimo preferirebbero restare anonime.
- Si, come il sottoscritto.. cosa non possibile, a quanto pare.
- Hanno preso mia figlia.
- Non è me che deve contattare per queste cose. Chieda alla Flotta: sequestri e varie sono di loro competenza. Vada dal Tenente Folham, lui se ne potrà occupare.
- .. abbiamo in custodia uno di loro.- Uno di chi?- Uno dei responsabili. Non vuole parlare. Non vuole parlare con nessuno.- Cosa le fa credere che lo farà con uno come me?- Mi hanno assicurato che sarebbe stato così.- Le hanno assicurato male.- Io credo di no.
Owen si guarda allo specchio. Ha il
volto sfatto per la serata goliardica, un velo di occhiaie scure che
appesantisce la tonalità dorata del viso. Ed è incazzato. Il
nervoso brucia negli occhi, nelle pupille dilatate e nel fremito
delle ciglia. Si tiene al mobile, teso in avanti. Inspira, espira.
- Non ho tempo e modo di venire fino li. Dovrà raggiungermi lei.
- Non è un problema. Mi dica solo dove.
- Glielo farò sapere a tempo debito. Per il momento si preoccupi solo di organizzare la partenza ed il trasporto del “pacco”.
Si morde il labbro: è preoccupato. Lo
è spesso, in casi come questi. Sta per mettere giù, senza
aggiungere altro, quando dall'altra parte Stone si schiarisce la
voce.
- ...cosa c'è ancora?
- Grazie.
- Ora non è il momento. Ne riparleremo più avanti.
Tronca la comunicazione di colpo, senza
dargli tempo di aggiungere altro. Si sporge dalla porta del bagno il
tempo di gettare il pad sul letto, sfilandosi la maglietta per andare
a farsi una doccia. Ci sta già rimuginando su, lo fa sempre. Ogni
lavoro diventa un tarlo che rode e corrode il cervello. Questo non è
diverso dagli altri.
E' sempre così, è una maledizione.