Agatha,
Mashhad
Dunham’s
House
- Perché sei tornato?- Se vuoi me ne vado eh?- No, dico: perché sei tornato?- Ho da lavorare, come sempre. Starò qui un po’.- Pensavo che non ti avrei più rivisto.- Già: lo pensavo anche io
Il clima
torrido di Mashaad entra nelle ossa, scavandole. Lo senti nella pelle, sulla
lingua. Nel sangue. L’afa chiude bocca e naso, ti soffoca come un sacchetto di
plastica premuto sul volto. Eppure oltre alla terra si respirano spezie, vita
ed una serie di sapori selvaggi ed inselvatichiti dei sobborghi. E’ da un po’
che non li frequenta. E’ da mesi – anni – che non mette più piede a casa. E’
figlio unico, o almeno si è sempre considerato tale, fino a che Maheb (detta
Maab) non venne portata a casa sua. Una ragazzina rachitica, bruttina. Sperduta.
Una ragazzina che per i primi anni della sua vita ha ignorato come la peste,
fino a che – crescendo – non ha imparato ad apprezzarla. All’inizio solo per l’influenza
degli ormoni, poi via via con maggiore coscienza e razionalità. Non l’ha mai
toccata però. Non le ha mai sussurrato nulla nel buio dell’immensa casa. A
stento l’ha trattenuta nei cortili a notte fonda, a guardarla parlare ed
assaporando la sua voce così piena di meraviglia per tutto. Non è una sorella,
ufficialmente non è mai stata adottata. Una mascotte, ecco. La stessa che Owen ritrova
tornando a casa, un giorno di Agosto. Se la ritrova li davanti, impalata nell’ingresso
con gli occhi sgranati e mille domande tra le labbra tremolanti. Ancora adesso
si sentono gli anni di differenza, per quanti “pochi” siano. Lui regge ancora
il borsone, tutti i vestiti ordinatamente piegati. Non ha più gli abiti
eleganti, ha qualcosa di tessuto fresco e del colore della sabbia più fine che
c’è, dorata. Le sta sorridendo, il suo modo di salutarla dopo quel breve
scambio di battute. Poi lei si lancia in avanti, lui allarga un braccio per
accoglierla. Le da un bacio sui capelli, respirando il suo profumo. La stringe
e la tiene contro di sé anche quando l’entusiasmo iniziale della sorpresa è
ormai scemato. E’ il mero bisogno di un contatto, necessario.
- Chi c’è a casa? Sei sola?- Mamma è allo Studio, Papà ancora in Ospedale. E’ uscito due ore fa, starà via tutta la notte. Ti preparo qualcosa da mangiare?- Nel senso che vuoi cercare di avvelenarmi ancora una volta?
Ora Mab la
prende sul ridere; qualche anno prima, invece, avrebbe piantato un muso
incredibile non parlandogli per giorni. La cucina ha lo stesso odore di sempre,
familiare e piacevole. Sospira a fondo, fino a farsi male i polmoni, poi si
lascia cadere su uno sgabello accostato all’isola centrale, non lontano dai
fornelli. La segue con gli occhi quando lei comincia a muoversi qui e li alla
ricerca di piatti e cibo, aprendo e chiudendo più volte l’anta del frigo.
- E’ da un po’ che non ti fai sentire. Come va il lavoro?- Al solito, stressante e noioso. Mi sono trasferito temporaneamente su Horyzon, a Capital City. Aiuto un vecchio amico nella Flotta.- Ti sei arruolato?- Già. Per il momento, almeno. Poi non lo so. Tu hai cominciato il tirocinio in Ospedale? A che punto sei?- Lavoro da un anno già, non sono più una tirocinante.
Non lo sta
rimproverando, perché sorride, ma la voce ha un che di malinconico. Sa di
amarezza. Gli sottolinea, in maniera squisitamente dolce, il fatto che lui è
stato assente. Che non ha chiesto, che non si è mai preoccupato di lei, di cosa
facesse o di come stesse.
- Mi dispiace- Non preoccuparti, eri impegnato..
Il silenzio
cala velocemente, diventando opprimente. Poco dopo il rumore del piatto contro
al ripiano interrompe la pausa. Si guardano, sospirano, poi Owen comincia a
mangiare. All’inizio lo fa con calma, in maniera svogliata. Poi fa sparire
tutto in poco meno di cinque minuti, agognando un bicchiere di succo che lei
gli porge prontamente.
- Ho intenzione di portarti un po’ in giro finchè starò qui. Ho delle cose da andare a compare anche al Bazaar. Potresti venire con me.- Oh beh, si.. se vuoi, certo…
Quel suo
tentennare non gli piace. Sa di cose non dette. La fissa – lo ha sempre fatto –
e si blocca con la forchetta a mezz’aria. Non le dice che dovrà anche lavorare,
che è per quello che va al Bazaar. Gli hanno chiesto di cercare qualcuno – Lee –
e lui intende cacciare ogni notizia in merito a quel Dylan Khan; di lui ha la
foto nel taschino, nascosta.
Si alza
dallo sgabello ed aggira il tavolo. Le va incontro, all’inizio, poi si blocca
ad un metro di distanza, poggiato contro il bordo.
- Mi faccio una doccia e mi preparo, poi usciamo. Ci vediamo qui fra una mezz’ora ok?
Riceve solo
un cenno della testa, un “si” troppo silenzioso per i suoi gusti. Non si ferma
un secondo di più, facendo dietrofront verso l’ingresso e recuperando la borsa
prima di risalire le scale. Due gradini alla volta, a passo sostenuto,
travolgendo la porta della propria stanza e richiudendosela alle spalle con un
tonfo. Espira, guarda in alto. Si incanta sulle travi del soffitto e sui
disegni che vivacizzano le pareti. L’ambiente non gli è estraneo, nonostante
questo non si sente a suo agio. Quando si sfila i vestiti, riprendendo a
muoversi verso la doccia, lo fa con il peso di chi sa che l’uscita della sera
sarà l’unica. Ha diversi lavori che lo aspettano.. e sa già cosa questo
comporterà. Il fatto che da qualche parte, dentro di sé, ne sia intimamente
soddisfatto è solo un particolare insignificante.
Domani è un
altro giorno.