lunedì 25 agosto 2014

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Agatha, Mashhad
Dunham’s House

- Perché sei tornato?
- Se vuoi me ne vado eh?
- No, dico: perché sei tornato?
- Ho da lavorare, come sempre. Starò qui un po’.
- Pensavo che non ti avrei più rivisto.
- Già: lo pensavo anche io
Il clima torrido di Mashaad entra nelle ossa, scavandole. Lo senti nella pelle, sulla lingua. Nel sangue. L’afa chiude bocca e naso, ti soffoca come un sacchetto di plastica premuto sul volto. Eppure oltre alla terra si respirano spezie, vita ed una serie di sapori selvaggi ed inselvatichiti dei sobborghi. E’ da un po’ che non li frequenta. E’ da mesi – anni – che non mette più piede a casa. E’ figlio unico, o almeno si è sempre considerato tale, fino a che Maheb (detta Maab) non venne portata a casa sua. Una ragazzina rachitica, bruttina. Sperduta. Una ragazzina che per i primi anni della sua vita ha ignorato come la peste, fino a che – crescendo – non ha imparato ad apprezzarla. All’inizio solo per l’influenza degli ormoni, poi via via con maggiore coscienza e razionalità. Non l’ha mai toccata però. Non le ha mai sussurrato nulla nel buio dell’immensa casa. A stento l’ha trattenuta nei cortili a notte fonda, a guardarla parlare ed assaporando la sua voce così piena di meraviglia per tutto. Non è una sorella, ufficialmente non è mai stata adottata. Una mascotte, ecco. La stessa che Owen ritrova tornando a casa, un giorno di Agosto. Se la ritrova li davanti, impalata nell’ingresso con gli occhi sgranati e mille domande tra le labbra tremolanti. Ancora adesso si sentono gli anni di differenza, per quanti “pochi” siano. Lui regge ancora il borsone, tutti i vestiti ordinatamente piegati. Non ha più gli abiti eleganti, ha qualcosa di tessuto fresco e del colore della sabbia più fine che c’è, dorata. Le sta sorridendo, il suo modo di salutarla dopo quel breve scambio di battute. Poi lei si lancia in avanti, lui allarga un braccio per accoglierla. Le da un bacio sui capelli, respirando il suo profumo. La stringe e la tiene contro di sé anche quando l’entusiasmo iniziale della sorpresa è ormai scemato. E’ il mero bisogno di un contatto, necessario. 
- Chi c’è a casa? Sei sola?
- Mamma è allo Studio, Papà ancora in Ospedale. E’ uscito due ore fa, starà via tutta la notte. Ti preparo qualcosa da mangiare?
- Nel senso che vuoi cercare di avvelenarmi ancora una volta?

Ora Mab la prende sul ridere; qualche anno prima, invece, avrebbe piantato un muso incredibile non parlandogli per giorni. La cucina ha lo stesso odore di sempre, familiare e piacevole. Sospira a fondo, fino a farsi male i polmoni, poi si lascia cadere su uno sgabello accostato all’isola centrale, non lontano dai fornelli. La segue con gli occhi quando lei comincia a muoversi qui e li alla ricerca di piatti e cibo, aprendo e chiudendo più volte l’anta del frigo. 
- E’ da un po’ che non ti fai sentire. Come va il lavoro?
- Al solito, stressante e noioso. Mi sono trasferito temporaneamente su Horyzon, a Capital City. Aiuto un vecchio amico nella Flotta.
- Ti sei arruolato?
- Già. Per il momento, almeno. Poi non lo so. Tu hai cominciato il tirocinio in Ospedale? A che punto sei? 
- Lavoro da un anno già, non sono più una tirocinante.

Non lo sta rimproverando, perché sorride, ma la voce ha un che di malinconico. Sa di amarezza. Gli sottolinea, in maniera squisitamente dolce, il fatto che lui è stato assente. Che non ha chiesto, che non si è mai preoccupato di lei, di cosa facesse o di come stesse.
- Mi dispiace
- Non preoccuparti, eri impegnato..

Il silenzio cala velocemente, diventando opprimente. Poco dopo il rumore del piatto contro al ripiano interrompe la pausa. Si guardano, sospirano, poi Owen comincia a mangiare. All’inizio lo fa con calma, in maniera svogliata. Poi fa sparire tutto in poco meno di cinque minuti, agognando un bicchiere di succo che lei gli porge prontamente.
- Ho intenzione di portarti un po’ in giro finchè starò qui. Ho delle cose da andare a compare anche al Bazaar. Potresti venire con me.
- Oh beh, si.. se vuoi, certo…

Quel suo tentennare non gli piace. Sa di cose non dette. La fissa – lo ha sempre fatto – e si blocca con la forchetta a mezz’aria. Non le dice che dovrà anche lavorare, che è per quello che va al Bazaar. Gli hanno chiesto di cercare qualcuno – Lee – e lui intende cacciare ogni notizia in merito a quel Dylan Khan; di lui ha la foto nel taschino, nascosta.
Si alza dallo sgabello ed aggira il tavolo. Le va incontro, all’inizio, poi si blocca ad un metro di distanza, poggiato contro il bordo. 
- Mi faccio una doccia e mi preparo, poi usciamo. Ci vediamo qui fra una mezz’ora ok? 
Riceve solo un cenno della testa, un “si” troppo silenzioso per i suoi gusti. Non si ferma un secondo di più, facendo dietrofront verso l’ingresso e recuperando la borsa prima di risalire le scale. Due gradini alla volta, a passo sostenuto, travolgendo la porta della propria stanza e richiudendosela alle spalle con un tonfo. Espira, guarda in alto. Si incanta sulle travi del soffitto e sui disegni che vivacizzano le pareti. L’ambiente non gli è estraneo, nonostante questo non si sente a suo agio. Quando si sfila i vestiti, riprendendo a muoversi verso la doccia, lo fa con il peso di chi sa che l’uscita della sera sarà l’unica. Ha diversi lavori che lo aspettano.. e sa già cosa questo comporterà. Il fatto che da qualche parte, dentro di sé, ne sia intimamente soddisfatto è solo un particolare insignificante.
Domani è un altro giorno.