Horyzon, pressi Capital City
Casa indipendente, Saint
Peter Street, numero 49
La pioggia ha smesso di scendere da un po’, anche se il
parabrezza è ancora bagnato. Nell’abitacolo del Suv c’è ancora l’odore di
Nicole, sia del suo profumo che della sua pelle. E’ fermo nel vialetto di Casa,
il motore spento e lo sguardo basso, a fissarsi le dita. Stringe le chiavi
senza forza, rigirandole in un tintinnio metallico basso che scaccia appena il
rumore del navigatore con la sua voce che annuncia l’arrivo a
destinazione. Si tocca il collo, cercando sotto alla camicia aperta il ciondolo
raffigurante il lupo che ulula – quello che gli ha regalato Daphne. Ci
giocherella in maniera distratta, poi gli capita di guardare verso il sedile
del passeggero e di trovarlo incredibilmente vuoto. E’ allora, in una
panoramica più ampia, che si rende conto della scatola sul sedile posteriore.
Il regalo è ancora li, abbandonato. Gli si stringe il cuore: non gliel’ha dato,
dopo averla riaccompagnata. E’ scappato dopo qualche parola, un bacio sfuggente
ma nessuna promessa.
Ora, invece, contempla il buio oltre i finestrini, guardando
verso la villetta ed il prato bagnato. C’è qualche luce accesa: probabilmente è
Serafel che si aggira tra una stanza e l’altra. Recupera il pad, accorgendosi
del messaggio di Daphne: non torna a casa, non presto almeno. Le risponde,
cominciando uno scambio veloce che lo lascia con un sospiro. Apre la portiera e
si lascia scivolare giù, raccattando la giacca che si butta sulle spalle,
appallottolando la cravatta - già levata - nella tasca dei pantaloni. Ha l’espressione
sfatta, non quella di uno che si è appena concesso una serata di sesso, in
macchina, dopo una litigata. Amore disperato, forse. Apre la porta in
silenzio, sbirciando l’ingresso. Nessuno. Non sente rumori. Non subito, almeno.
Gli otto cani lo investono un attimo dopo, uggiolando e scodinzolando alla
ricerca di attenzioni. Fa una carezza a tutti, poi supera il corridoio puntando
alla propria camera. Vi entra socchiudendo la porta, conscio che tanto la
solitudine non durerà in eterno – visto il branco di animali che si ritrovano.
Lancia i vestiti sul letto, deviando verso il bagno. Quella porta invece la
chiude persino con la chiave, aprendo l’acqua della doccia. Si guarda allo
specchio, gli occhi tristi e l’espressione tesa.
- Certo che sei proprio un idiota…
Se lo dice da solo, senza alcun sorriso. E’ un insulto,
chiaro e pulito. Cerca conforto nel getto tiepido, con l’acqua che gli scivola
addosso. Resta poggiato alla parete con entrambe le mani, il capo chino ed i
capelli separati dal getto che cala sul collo. Ci sta una buona mezz’ora, senza
muoversi molto, poi si avvolge in un asciugamano pulito strofinandone un
secondo sulla testa. Non sceglie i vestiti, recupera solo un paio di boxer che
si infila in maniera svogliata, uscendo così dalla stanza come se nulla fosse.
Staunch e Sunshine lo seguono, mentre il resto del gruppo sonnecchia nel
salotto. Lo affiancano vicino al frigo, che apre cercando dell’alcool. Ha poca
fortuna, a quanto pare. Ripiega su un altro armadietto, vuoto anche quello. Torna
verso la stanza cercando il pad tra i vestiti sporchi. Compone un numero.
- Ti va di andare ad una festa, stasera?
- .. cosa, che.. Dunham, sono le 3 del mattino.
- Secondo te me ne frega qualcosa?! - alza la voce più del necessario, senza accorgersene.
- .. perché non te ne vai a fan…
- Ti prego, Regy. – il tono cambia, si fa basso e roco.
- Jeeez, Dunham. Cosa cazz… va bene, ok. Solito posto?
- No, mi sono trasferito. Ti mando l’indirizzo. Ti aspetto in giardino.
- Ma fa un freddo maledetto, Dun.. in giardino?!
- Senti, porta da bere, al resto ci penso io.
Aspetta Regy circa un’ora,
prima di vedere oltre le vetrate lo sfarfallio dei fari. Esce vestito pesante,
portando una giacca anche per l’amico. L’unico che gli è rimasto, e che sappia
tutto, a quanto pare. Apre due sedie un po’ malridotte, piazzandole sotto la
tettoia della casa. Il lato più lontano che ci sia, per non dare fastidio all’unica
inquilina rimasta. Regy lo guarda, Owen non parla. Si scola solo una bottiglia
di birra dietro l’altra in perfetto silenzio, fino a che la lingua non si
scioglie un po’. Gli racconta della festa, del viaggio in macchina, del
Belvedere. Tutto.
***
(sei ore prima)
- Dimmi, cosa vuoi che faccia?
Nicole Moore non chiede mai niente, è per questo che Owen di
solito insiste per forzarle un po’ la mano. Le chiede di essere sincera, di
svelare i suoi dubbi. Di parlare. Questa volta, però, preferirebbe guardarla
tacere e basta. Le varie risposte gli si inchiodano in gola. “Baciami”. “Ti ho
spezzato il cuore e lo sto spezzando anche a me stesso”. Niente di tutto
questo, semplicemente un: non odiarmi.
La sente
imprecare, la vede lanciarsi per raggiungerlo. Per riversare in un bacio tutto
l’odio che prova, con forza e prepotenza. Lei che, dopo, chiede di “non andare
via”. Lo ripete più di una volta. Gli dice “io credo di amarti” ed è ciò che
scatena il panico. Owen le afferra le braccia con forza, con l’intenzione –
pare – di lasciarla andare. Di spingerla via. Invece resta a guardarla con
sguardo torvo e muscoli tesi. Poi l’avvicina, sussurrandole: allora non
lasciarmi.
Non riesce a
dire che forse l’ama anche lui.
***
L’ultima bottiglia tintinna in terra assieme alle altre.
Regy raccoglie tutto in silenzio, scuotendo la testa.
- Avrei dovuto portarti qualcosa per dormire…
- No, non ne ho bisogno.
- Secondo me si, hai un aspetto di merda.
- Pazienza, passerà.
Lo lascia
così, barcollando verso l’interno. Si aggrappa agli stipiti delle porte, agli
angoli del muro, e non si sa come in camera propria ci arriva strisciando, con
tutta la casa che gira su sé stessa. Non riesce a raggiungere il letto, cade
molto prima dritto verso il comodino. Spacca la lampada, fa cadere la sveglia
digitale e stampa la faccia contro l’angolino di legno. Crolla di lato,
portandosi dietro solo un pezzo di coperta che non lo scalda.
Si sveglia
un’ora dopo, con la testa che gira e la bocca impastata. Si mette in ginocchio,
tastandosi il viso umidiccio, vicino al sopracciglio. Si è tagliato: poco male.
Arranca tra i cuscini, gettando la felpa alla rinfusa senza guardare dove
atterrerà. Non riesce a riprendere sonno, solo a fissare il vuoto li accanto,
nel buio. In tempo, almeno, per sentire Daphne rientrare. Aveva detto che lo
avrebbe svegliato per raccontargli una storia, perciò chiude gli occhi e finge
di dormire – facendosi trovare in uno stato pietoso, puzzolente di alcool e
frastornato. Ma con ancora un sorriso da spendere, per lei. Uno i quelli poco convinti, stanchi e
spezzati, che chiedono solo di non fare domande.